SOTTOSEGRETARIO DI LOTTA E DI GOVERNO: ALFREDO MANTOVANO SPARA A ZERO CONTRO I MAGISTRATI
(g.p.) ____________ Le tensioni, chiamiamole così, che da anni erano sorte fra il centro – destra politico e buona parte dei giudici e che sono diventate negli ultimi mesi via via sempre più scontro aperto su numerose questioni, come i provvedimenti sull’immigrazione, o la separazione delle carriere dei magistrati, o l’abolizone del reato di abuso d’ufficio, hanno raggiunto questa mattina l’acme, forse un punto di non ritorno.
Pesano come macigni le parole pronunciate a Roma davanti il Consiglio Nazionale Forense, vale a dire il massimo organismo rapresentativo degli avvocati e del loro ordine professionale, da Alfredo Mantovano, 67 anni, di Lecce, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ‘consigliato’ a Giorgia Meloni da Gianfrancon Fini, con il quale è legato da un lungo sodalizio politico, ex magistrato e deputato e senatore, da sempre politicamente di destra e fervente cattolico.
Mantovano è da due mesi indagato dal procuratore capo della Repubblica di Roma Francesco Lovoi per il caso del rimpatrio del libico Almasri.
Uomo inoltre notoriamente rispettoso, moderato, equilibrato e prudente, questa mattina, in sintesi estrema, ha accusato i magistrati di invadere il campo destinato ai politici, di fare politica con le sentenze, di erodere la sovranità popolare, di fare ‘giurisprudenza creativa’.
Insomma, vere e proprie bombe politiche, lanciate sul campo dei magistrati.
Ecco comunque quello che ha detto, nel testo integrale del suo discorso.__________
Il Ministro della Giustizia affronterà le tematiche che attengono in modo specifico alla professione dell’avvocato, e più in generale a quelle del rapporto fra l’avvocato e gli uffici giudiziari. Eviterò pertanto di soprappormi alle considerazioni che egli svolgerà, e mi limiterò, rispetto ai vostri lavori, a una premessa di carattere più propriamente politico. Vorrei farlo coi piedi ben saldi in un territorio sempre più attraversato da tensioni fra poteri dello Stato: nonostante negli ordinamenti occidentali l’equilibrio fra i poteri sia delineato in modo chiaro dalle Costituzioni, esso oggi appare sempre più precario.
Sono tensioni che presentano caratteristiche e connotazioni diverse rispetto a quelle in un certo senso ‘classiche’, cui eravamo abituati ad assistere nell’ambito del principio della separazione dei poteri.
La diversità rispetto al passato dipende anzitutto dal ruolo centrale assunto dal diritto sovranazionale e dal meccanismo con cui esso viene a operare negli ordinamenti statali, che si basa sulla prevalenza del ruolo delle corti.
Che le tensioni si colleghino a elementi esterni rispetto allo Stato spiega perché queste tensioni si prestino a incidere sulle fondamenta stesse degli Stati democratici di diritto: che – come recita il primo articolo della nostra Costituzione – si poggiano sul principio della sovranità popolare, che a sua volta si esprime mediante la rappresentanza diretta nei parlamenti nazionali.
Quello che è in gioco è diventato proprio il modo di intendere, di rispettare e di applicare la sovranità popolare, e in particolare quella sua forma di espressione che avviene tramite le decisioni dei parlamenti.
Sono tre le tipologie di aggiramento della volontà popolare attraverso la strada giudiziaria: la creazione delle norme per via giurisprudenziale; la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo; la selezione per sentenza di chi deve governare.
Il tema della giurisprudenza “creativa” non è nuovo. La novità oggi è il suo carattere non più eccezionale, bensì diffuso fra tutte le giurisdizioni, con riferimenti alle fonti internazionali ed europee, dando una lettura “estensiva” – per non dire arbitraria – delle norme costituzionali, attingendo al c.d. multilivello, una sorta di shopping fra le disposizioni di altri ordinamenti nazionali: il tutto per costruire discipline che il parlamento non ha mai approvato o perché non le condivide, o perché non ritiene di trattarle.
Parallela alla creazione della norma per via giurisprudenziale è la tendenza delle corti a negare spazi regolativi al legislatore. Parallela, e non contrapposta, perché esprime il medesimo percorso di erosione degli spazi di diretta espressione della sovranità popolare. Pensiamo, per riportare un esempio di leggi sistematicamente disapplicate, a quelle in materia di immigrazione: non le si impugna neanche più davanti alla Corte costituzionale, semplicemente vengono disattese, dopo averne annunciato e rivendicato la disapplicazione in convegni e in scritti.
Ciò è ancora più singolare nell’ordinamento di uno Stato che fa parte dell’UE, e che – proprio in ragione di tale appartenenza – è teatro della progressiva erosione degli spazi regolativi del legislatore nazionale, in favore della estensione della operatività del diritto europeo, visto che la gran parte della regolazione nazionale è ormai recepimento di norme europee.
Non è questione di forma, ma di sostanza. Lungi da me rilanciare ulteriori polemiche: quello che noi desideriamo è non già delegittimare l’Unione europea, bensì che la nostra Repubblica continui a preservare il suo fondamento, sancito dall’art. 1 Cost. Per noi sovranità popolare non è un concetto superato dalla storia: è la base del rispetto che il potere pubblico deve ai cittadini; ed è al tempo stesso la base della vincolatività delle regole che ai cittadini viene chiesto di rispettare.
Il secondo ambito di tensioni nei rapporti fra poteri riguarda l’interdizione per via giudiziaria dell’azione di governo su materie politicamente sensibili, dalle scelte sull’immigrazione a quelle riguardanti l’industria: farei torto alla vostra conoscenza se dicessi qualcosa di più. Anche perché vorrei spendere qualche parola in più sull’elemento di novità degli ultimi mesi, una sorta di chiusura del cerchio: la tendenza delle corti a incidere direttamente sulla rappresentanza degli elettori.
Il pensiero corre alla sentenza con cui alla leader francese Marine Le Pen è stata applicata la sanzione accessoria, immediatamente esecutiva, dell’ineleggibilità per cinque anni. Non entro nel merito delle accuse a lei rivolte all’interno della giurisdizione di un altro Stato europeo. Mi limito a constatare che commentatori di parti politiche contrapposte a Marine Le Pen, in Francia come in altre Nazioni, Italia inclusa, hanno espresso forti dubbi sulla proporzione fra i reati posti a base della condanna, l’entità di quest’ultima, e soprattutto l’applicazione anticipata della sanzione accessoria.
Non entrare nel merito non impedisce però di riflettere sul criterio di proporzione, e quindi sul bilanciamento operato. Il diritto di elettorato passivo è qualcosa di particolarmente delicato: attiene al cuore dell’espressione della sovranità popolare. Deve essere vincolato a parametri di onorabilità del candidato: ma perché a tali parametri non deve applicarsi la presunzione di non colpevolezza, che vale pure per l’immediata applicabilità delle sanzioni accessorie? soprattutto in presenza di reati che non appartengono al catalogo dei più gravi (anche quest’elemento dovrebbe entrare nel bilanciamento).
Due valori, entrambi importanti, si fronteggiano: da un lato la garanzia della massima espressione della sovranità popolare, dall’altro la garanzia dell’onorabilità dei rappresentanti popolari. La ricerca del bilanciamento va perseguita con cura, per il bene al tempo stesso della politica e della giurisdizione. Va scongiurato lo spettro del reciproco sospetto, che avanza con l’avanzare delle tensioni fra le Corti e le istituzioni politiche; va scongiurato, in particolare, il sospetto che il perseguimento dell’incandidabilità del soggetto politico visto come ostile condizioni il merito della decisione giudiziaria: perché questo sospetto mina in modo irreparabile la fiducia dei cittadini nella giustizia e nella politica.
Non aiuta che talune forze politiche, nonostante la lezione degli ultimi decenni, paiano ancora liete degli “azzoppamenti” giudiziari dell’avversario, pur di per ottenere chance nella competizione elettorale. Trovo molto puntuale la fotografia dell’esistente scattata sul Corriere della sera (2 aprile 2025) da uno dei più illustri editorialisti italiani, Aldo Cazzullo. Il quale sulla vicenda Le Pen ha spiegato, come se fosse qualcosa di normale e di logico, che “era abbastanza ingenuo attendersi che l’establishment francese avrebbe consegnato il Paese (…) a Marine Le Pen. (…) Da italiani, cioè un popolo che disprezza lo Stato e la politica, fatichiamo a capire i Paesi dove un establishment esiste. Non a caso l’Italia è l’unico Stato dell’Europa occidentale dove i populisti hanno vinto le elezioni, sia nel 2018 sia nel 2022”.
Non saprei descrivere meglio la considerazione che l’establishment ha della sovranità popolare e del voto libero. Quello che preoccupa è non tanto una simile argomentazione, quanto il rischio che la magistratura percepisca sé stessa non già come chi è chiamato a esercitare l’arte regale dello jus dicere nel caso concreto, bensì come parte di un establishment che ha la funzione di arginare la ‘pericolosa’ deriva della coerenza fra la manifestazione del voto, la rappresentanza politica e l’azione di governo.
Secondo tale ottica, quest’argine andrebbe posto anche nei confronti dei disegni di legge costituzionali, che pure hanno una procedura rinforzata, e quindi ancora più garantita, di approvazione, a cominciare da quello in materia di ordinamento giudiziario, oggi all’esame del Parlamento. E non importa se la riforma osteggiata ha costituito parte non marginale del programma col quale la coalizione che oggi sostiene l’esecutivo ha ottenuto il consenso degli elettori nel settembre 2022. Non importa se la medesima Costituzione che viene esibita in contrapposizione alla riforma stabilisce il diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). Non importa che se assumo un impegno con gli elettori e ne ricevo il consenso poi devo essere coerente con l’impegno assunto. Secondo l’establishment, deve prevalere il diktat dell’establishment.
E, vi prego, non riduciamo questo scenario a un racconto di ‘toghe rosse’ in azione, che forse aveva senso 30 anni fa, ma adesso appare macchiettistico. È qualcosa di più complesso e di più grave. È un ormai cronico sviamento della funzione giudiziaria, perché quest’ultima deraglia dai propri confini e decide, insieme alle norme, le politiche sui temi più sensibili, e chi quelle politiche deve applicare. Ed è uno sviluppo che attraversa tutte le giurisdizioni, a prescindere dalle appartenenze correntizie.
Ritrovare l’equilibrio è indispensabile. È un obiettivo rispetto al quale il ruolo dell’avvocatura è fondamentale. L’avvocato è figura centrale: è colui che richiama il magistrato all’esercizio equilibrato della funzione giurisdizionale. Proprio per questo nel quadro attuale l’avvocato diventa figura centrale anche per garantire, se pure indirettamente, l’equilibrio fra i poteri dello Stato.
Tutte le tensioni che attraversano la giurisdizione incrociano la quotidiana attività degli avvocati. È ovvio che alla fine non sono gli avvocati a decidere: ma essi possono avere una funzione maieutica nell’indirizzare il giudice a far sì che, nel delicato rapporto fra scelte politiche e giurisdizione, non decida in modo sbilanciato.
L’avvocatura molto dà, e ancora molto ha da dare, ai nostri ordinamenti giuridici e ai valori dello “stato di diritto” correttamente intesi, e non ideologicamente declinati.
L’avvocatura italiana è storicamente portatrice di una cultura nobile e preziosa, basandosi su una deontologia solida e non ideologizzata: quella cultura che non guarda al giudizio come strumento di affermazione della prevalenza del proprio cliente rispetto alla controparte, bensì come via per la realizzazione delle istanze di giustizia.
Proprio il valore oggettivo della persona fonda quella sovranità popolare che costituisce, a sua volta, la base del nostro Stato.
Auguro quindi agli Avvocati d’Italia, unitamente al successo di questa inaugurazione, che possano farsi portatori di questi principi, che talora hanno pagato al prezzo della vita: che continuino a farlo nelle aule giudiziarie, nella professione, e nella loro testimonianza di cittadini.