NOVITA’ DISCOGRAFICHE / “Nine Days” DI OH PETROLEUM: UN ASCOLTO DIFFICILE, SOFFERTO E BELLISSIMO
di Roberto Molle _________
Qualche volta sento di vivere un vero e proprio transfert e mi sento come un pesce fuor d’acqua nell’ambiente in cui vivo da sempre. A scanso di fraintendimenti voglio precisare che amo il mio Paese e il mio essere un po’ disallineato riguarda soprattutto la musica e la sua identità.
Semplicemente sono più a mio agio dentro le atmosfere plumbee e piovose di certi scenari anglosassoni. Non so come sia possibile, è stato così da sempre. Magari in un’altra vita avrò vissuto in un sobborgo di Salford o nella campagna che circonda il piccolo villaggio di Tanworth-In-Arden nel Warwickshire, chissà: il dato è che il fascino di quelle terre, gli umori e i suoni che nel tempo sono arrivati da lì, hanno in qualche modo influito sul mio sentire e spesso hanno contribuito a rendermi la vita migliore.
Poi, il fatto che a tanti la musica abbia salvato la vita può sembrare un luogo comune, ma come ogni luogo comune quell’assunto ha un fondo di verità.
Queste riflessioni di carattere esistenziale cadono in un momento legato all’ascolto di un album con il quale mi sto trovando in perfetta sintonia. Un po’ per la sua bellezza ma anche per il fatto che (m’immagino) il suo autore possa avere, anche lui, percezione di appartenenza ad altri mondi, tanto la sua musica incarna essenze e suggestioni quasi aliene alla scena italiana.
Il riferimento è a Oh Petroleum (pseudonimo di Maurizio Vierucci) e al suo disco “Nine Days” fresco di pubblicazione.
Qualche anno fa dopo una full immersion nell’ascolto dei precedenti album di Oh Petroleum ne scrissi in un articolo del 15 maggio 2018 su leccecronaca.it: “Si chiama Maurizio Vierucci ma i suoi dischi portano il marchio di Oh Petroleum, è di Brindisi e divide la sua ispirazione tra l’Inghilterra e gli States. Mi piace pensare a Oh Petroleum come a un’artista sui generis che ha mutuato suoni e parole da un “universo parallelo”, travalicando confini territoriali e barriere mentali, approdando a una dimensione di grande respiro cosmopolita. Il suo percorso è comune a quello di tanti altri musicisti: inizio da batterista, poi strumentista in diverse band della città. Di base, i generi che hanno ruotato da subito nelle corde di Maurizio sono quelli che ancora oggi ne determinano l’imprinting: folk, blues, sperimentazione e rock’n’roll. Quello della sperimentazione è l’elemento caratterizzante che lo ha portato a fondere la sua musica con altre discipline, collaborando con diversi artisti in spettacoli e azioni performative. In passato ha preso parte al programma di “residenza internazionale” Sounds Res con Lee Ranaldo, David e Found Sound Nation”.
Tornando al presente e a “Nine Days”: è stato un ascolto difficile, sofferto, bellissimo. L’intensità che si sprigiona dalla voce di Maurizio costringe a una resa e a delle condizioni: spegnere il mondo di fuori, indossare le Sennheiser e bloccare ogni rumore che possa filtrare, essere disposti a scivolare nella notte più nera per poter meglio apprezzare ogni più piccola sfumatura di luce e di vita.
Apre il disco The Loom, marziale e funerea cavalcata nel buio attraverso ricordi, rimembranze, ectoplasmi.
“The ghost finally came / and the bulb burnt out” (Il fantasma è finalmente arrivato / e la lampadina si è fulminata) canta languido Oh Petroleum, introducendo uno scenario che si fa contrafforte gotico sul filo di un’ipnotica melodia che non lascia scampo. “I need this / a message to me / a slap in the face / a word said unafraid” (Ho bisogno di questo / un messaggio per me / uno schiaffo in faccia / una parola detta senza paura), si legano suoni e parole dentro un gioco poetico che cresce e libera da gabbie ancestrali e spettri che sopravvivono dentro ognuno di noi.
Water inizia eterea, da qualche parte su una strada polverosa che conduce verso il nulla. “It’s much harder than you think / consider / that I’d walk seven days / to find some water” (È molto più dura di quanto pensi / considera / che camminerei sette giorni / per trovare un po’ d’acqua), verosimile istantanea distopica dentro un testo che non si lascia facilmente interpretare. Una traversata scandita da un blues che si sporca di oscurità mentre una carovana avanza alla ricerca di qualcosa che non si lascerà trovare.
La terza traccia si muove sulla quella dimensione onirica che ormai è chiaro, segna tutto “Nine Days”. Chalk è quasi un sussurro liberato nel vuoto cosmico di un non luogo. “You don’t know it’s “fear” / the answer in your throat / something like a flute / keeps sounding just behind” (Non sai che è “paura” / la risposta nella tua gola / qualcosa come un flauto / continua a suonare appena dietro), la percezione è comunque di una action in progress dettata dall’esigenza di creare minimali installazioni fatte di suoni e parole dentro piccoli affreschi con una terza dimensione percepita: quella visiva.
Wild Boars è altra istantanea che si allinea in un gioco di ombre che giocano a scrivere sull’acqua. Immagini che vivono il tempo di pochi secondi, tornando nel cerchio della mente. “Cold or rain? / many tears run / follow and lose space and time / it’s an eyes’ alliance” (Freddo o pioggia? / molte lacrime scorrono / seguire e perdere spazio e tempo / è un’alleanza di occhi) flash apparentemente slegati che disegnano percorsi sottotraccia come pezzi di puzzle che vanno ricomposti.
Quelle volte che le parole s’incendiano liberando profumi imprigionati dentro narici atrofizzate: In The Meadow riapre a uno sguardo gotico squarciando un velo intessuto di atmosfere dark. “Would they really set on fire this side of the meadow?” / Here I picked lilies and dandelions [..] But vandals prevail /children cry / “will we be devoured by beasts?” (Davvero darebbero fuoco a questo lato del prato? / qui ho raccolto gigli e denti di leone [..] Ma i vandali prevalgono / i bambini piangono / “Saremo divorati dalle bestie?”), passaggi che evocano partiture vittoriane, la Cynthia di Nursery Cryme (dal songbook di Peter Gabriel n.d.r.) come una novella Alice nel paese delle mostruosità grida dal cuore di una caverna con gli occhi iniettati di sangue prima di essere inghiottita dal buio.
Nine Days To Fall ha la durata di un pezzo punk depotenziato da un riverbero che ne scortica tutta l’elettricità possibile, trasformando il brano in una litania che non sarebbe dispiaciuta al Jason Molina di “Ghost Tropic”. “Vapor surrounds the mouth / slowly curls down on your face / you tease me even when you dream / as if a phantom took your place”
(Il vapore circonda la bocca / si avvolge lentamente sul tuo viso / mi prendi in giro anche quando sogni / come se un fantasma avesse preso il tuo posto), tutto è tenuto insieme da un apparente scollegamento con il mondo reale, capace però di ricomporsi in un sotto mondo dove la percezione è dettata da una capacità empatica dentro un parallelo virtuale.
Distant Laughter è fatta di lande desolate, nebbie che galleggiano, lune scomparse dietro nuvole di metallo, nere signore con la falce: simboli e iconografie care al Paul Roland di “Danse Macabre”. Ma laddove Roland gioca (come in tutti i suoi dischi) a disseminare indizi per tracciare dei racconti gotici, Oh Petroleum sembra voler dare vita a se stante a ogni istantanea che crea con la musica e la sua splendida voce.
“Nine Days” si chiude con The Monster, un brano intriso del languore di un giorno che muore. Le parole sembrano farneticanti: “Elders move from a pretty house to another / from town to town [..] We can see them burning and running / they are like fiery hares [..] I wailed beneath the ferns / a red pensive face upon / a blue head / Wet with dew / weities’ useless sound”
(Gli anziani si spostano da una bella casa all’altra / di città in città [..] Possiamo vederli bruciare e correre / sono come lepri infuocate / con un movimento del tuo pollice [..] Ho pianto sotto le felci / un volto rosso e pensieroso su / una testa blu / bagnata di rugiada / Il suono inutile delle divinità)
ma raccontano movimenti, partenze, passioni, sogni e ritorni.
“Nine Days” è un disco complicato e semplice allo stesso tempo. Sfinisce per la sua bellezza nascosta tra le pieghe di un’oscurità che illumina con i suoni, le parole e la voce melanconica di Maurizio Vierucci. Sono tempi questi che portano le sensibilità degli artisti a spogliarsi del superfluo e rivelarsi nella loro essenzialità. In quest’ottica “Nine Days” è specchio di interiorità che incanta e fa ben sperare.
Category: Cultura