IL CALCIO NEL DESERTO, O IL DESERTO NEL CALCIO? IL CASO ARABIA SAUDITA
di Beatrice Napolitano ______
(Rdl) ______ Con l’articolo che qui di segito abbiamo il piacere di condividere su leccecronaca.it, Beatrice Napolitano, 2 C del Liceo Scientifico Banzi Bazoli di Lecce, ha vinto il primo premio al concorso “Giornalista per un giorno”, organizzato per la quattordicesima volta dal Panathlon Club Lecce, con il Patrocinio e la collaborazione della Provincia di Lecce e dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, in memoria di Sergio Vantaggiato. ______
In Arabia Saudita, dall’estate 2023, è in atto una nuova rivoluzione. Niente a che vedere con le famose “primavere arabe”, ossia le rivolte scoppiate più di un decennio fa nei paesi di lingua araba. Anzi, sembra essere un fenomeno opposto e contrario. Si tratta, infatti, di una rivoluzione che avviene a suon di calci, sì, ma di quelli tirati ad un pallone.
Artefice indiscusso della rivoluzione calcistica è il ricchissimo sceicco ed erede al trono Mohammed bin Salman con il suo progetto “Vision 2030” che prevede uno sviluppo del paese arabo in settori diversi da quello petrolifero e, in particolare, affida tale mission allo sport.
L’obiettivo finale sembrerebbe addirittura quello di ospitare i Mondiali nel 2030 o nel 2034, dopo aver già trasformato il deserto in un palcoscenico per il grande spettacolo calcistico con l’accoglienza di tornei internazionali, tra cui la Coppa del Mondo FIFA per Club nel 2019 e la Coppa d’Asia AFC nel 2023.
Senza dimenticare che un altro tassello importante nella costruzione dell’immagine sportiva del Paese è rappresentato dal sorprendente affermarsi di una squadra calcistica femminile che ha fatto il suo debutto internazionale il 20 febbraio 2022.
Inoltre, a suon di 200, 50, 30 milioni a stagione, la Saudi League, cugina araba della Champions e Premier League, ma dal portafoglio illimitato, è riuscita a richiamare nelle oasi del deserto gli assetati top player di tutta Europa: da Cristiano Ronaldo a Benzema a Kantè, vere stelle del calcio mondiale, fenomeni nell’inseguire una palla e nel rimpinguare i propri conti correnti.
Ma quali sono le vere motivazioni per cui l’Arabia Saudita sembra mettersi in gioco?
Mohammed bin Salman non è di certo un appassionato di sport e non è l’ancestrale amore tutto maschile per il calcio a spingerlo a ripagare con fantasmagorici cachet la presenza dei giocatori più famosi d’Europa nel paese arabo. È bensì animato da quello che viene definito sportwashing, ovvero la (poco sportiva) strategia che consiste nello sfruttare lo sport per rendere moderna l’immagine del proprio paese, facendo distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani lì presente.
Di “primavera araba” in quest’intento c’è chiaramente ben poco, dal momento che le rivoluzioni del 2010 quei diritti umani volevano, invece, ripristinarli.
Il palcoscenico dello spettacolo calcistico arabo sembra, dunque, essere più realisticamente un vero e proprio teatrino, utile a mascherare le più urgenti questioni sociali.
Ma, dati alla mano, sembrerebbe che il calcio nel deserto si stia trasformando piuttosto nel deserto nel calcio, in quanto la rivoluzione pare non prendere piede, a causa di svariati motivi: incapacità di attrarre i fans del calcio europeo, disinteressati ai match arabi; pallida discussione pubblica di appassionati ed esperti sui social; bassa media di spettatori alle partite; strutture non adeguate.
A ben vedere, però, il monarca saudita non è riuscito a fare gol per un motivo ben preciso, di tipo culturale: in Europa, contrariamente a quanto succede in Arabia, il tifoso è legato alla maglia, alla squadra, al club in cui si riconosce e di cui conosce la storia, l’evoluzione, il contesto. Fattori che il denaro non è riuscito ancora a comprare. E meno male.
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