NOVITA’ DISCOGRAFICHE / RAGIONANDO DI MUSICA, IN BREVE SU “Ira”DI IOSONOUNCANE, IN MANIERA PIU’ APPROFONDITA SU “Wrackline” DI FAY HIELD
di Roberto Molle______
Tornare a ragionare di musica su leccecronaca.it dopo un periodo (per lo scrivente) particolarmente doloroso in cui gli ascolti si sono rarefatti lasciando strascichi di vuoto lunghi come ponti; tornare ad affrontare il dilemma se è normale – su un quotidiano fondamentalmente locale – occuparsi spesso di suoni provenienti da area underground o di culto, piuttosto che confrontarsi con le pur ottime, recenti proposte di musicisti mainstream salentini (vedi gli ultimi album di Maria Mazzotta e Crifiu); dover decidere di raccontare della bellezza di uno tra due album usciti da non molto tra l’Italia e l’Inghilterra (non proprio una sfida come quella della finale dei campionati di calcio tra le due nazioni su citate, perché i due dischi sono bellissimi e vincono entrambi) e, alla fine, scegliere quello inglese a causa di certe affinità elettive.
Il disco italiano si chiama “Ira”, il suo autore è “Iosonouncane” (al secolo Jacopo Incani) e due cose su questo lavoro vanno comunque dette. “IRA” è un disco che si ama o si odia, un no-concept fatto di salti lirico-temporali; un cilindro da cui vengono fuori mille frammenti di vita e suoni destrutturati. Trance che si avvita su se stessa e trascina dentro abissi scuri e dolciastri.
Ci sono diversi convitati di pietra in questo album: dai Residents che giocano al minimalismo con i Portishead, ai Can che fanno le smorfie alle spalle di Frank Zappa; dal Peter Gabriel che edifica muri di ritmi ossessivi al pifferaio Robert Wyatt che dispensa litanie in falsetto. E può venire il dubbio che non si stia parlando di un disco italiano…
Infatti, nella sostanza non lo è. “IRA” è un lavoro apolide, senza padri né terre madri ma con infiniti collegamenti a quelle appartenenze. Se lo si ascolta senza interruzioni, anche a qualsiasi ora del giorno, è facile sprofondare nelle tenebre più ombrose e trovarsi faccia a faccia con il Genesis P-Orridge di quel “Dream less sweet” che ne contiene la stessa struttura sonora e medesimi contrafforti: ritmi ossessivi, litanie alinguistiche, elettronica stratificata, afasie e flash-back, empatie scovate nelle viscere del pensiero più remoto e si potrebbe continuare…Ma è dell’altro disco (quello inglese) e della musicista sua autrice che si era detto di voler approfondire.
Fay Hield (nella foto) è una cantante, operatrice culturale e ricercatrice di etnomusicologia all’Università di Sheffield. Fay è (probabilmente insieme al marito Jon Boden, già leader di Bellowhead) la figura di spicco della scena contemporanea inglese, che non conosce momenti di stanca o annate di transizione. “Wrackline” (Il suo quarto album) conferma, e se possibile supera, le buone cose dette e scritte in occasione dei lavori passati.
Accompagnata dalla medesima band del disco precedente (“Old Adam”, uscito nel 2006 sempre per la storica etichetta Topic), Hield regala uno sforzo ancora maggiore: alla solita cospicua selezione di brani tradizionali, che componevano il lavoro passato (al netto di una bella cover di un classico minore di Tom Waits, “The Briar and The Rose”) e le sue prime produzioni, affianca un buon numero di brani scritti per l’occasione.
“Wrack Line” è la linea di battigia che delimita il bagnato dall’asciutto, e quindi il noto dall’ignoto, il certo dall’incerto, le facoltà dell’uomo dai poteri di una Natura invincibile e a volte beffarda.
L’ambientazione di questo lavoro è molto scura e si dipana fra storie soprannaturali, incantesimi, streghe, fantasmi, tempeste e classiche ballate truculente e sanguinose (“Cruel Mother”). Una tenebrosità che arriva dalla produzione recente di June Tabor, ma senza la solennità che la prevalenza nel sound del pianoforte conferisce a quei lavori. La cifra del disco, oltre ad una registrazione impeccabile, è la voce di Fay Hield: intonazione infallibile, un’inflessione ancora tradizionale nell’approccio ma decisamente moderna nel piglio; e poi l’affiatamento della band, un accompagnamento elegante, mai sopra le righe e perfettamente intonato alla voce della leader, con i fidi Sam Sweeney al violino, Rob Harbron a concertina e chitarra, Ben Nicholl al contrabbasso e i cori di Ewan MacPherson.
Difficile scegliere quali brani meritino la menzione, dato che in tre quarti d’ora di musica non vi sono tracce che possano essere definite meramente riempitive; le preferenze del sottoscritto vanno comunque alla canzone di apertura “Hare Spell”, testo tradizionale su musica originale, alle due tracce che vedono Fay Hield imbracciare il banjo “Jenny Wren” e “Sweet William’s Ghost”, e all’eterea “Swirling Eddies”. Interessante la circolarità della tracklist, dove all’iniziale “Hare Spell” si giustappone in chiusura “When She Comes”, medesima storia però raccontata dal punto di vista delle lepre. Un bellissimo album che conquista già dal primo momento e con gli ascolti successivi cresce ulteriormente.
Ascolti da “Wrackline” – Fay Hield.
https://www.youtube.com/watch?v=asc0-mXdB9U&ab_channel=TopicRecords
https://www.youtube.com/watch?v=9LZzk87tGhw&ab_channel=FayHield-Topic
Category: Cultura