MORTO MARADONA / RESTA IL VUOTO CHE LASCIANO I RE
di Francesco Buja______
L’ho visto giocare. E l’ho visto sognare. Un gol dei suoi, punizione imparabile, in un Lecce-Napoli di Coppa Italia, alle spalle del pur bravo Terraneo.
Un privilegio.
Perché chi ama il calcio, quando vedeva giocare Diego Armando Maradona, vedeva “il” calcio. Nella sua purezza infantile, perché lui, el Pibe de oro, alto quanto un bambino, era l’espressione in carne e ossa della passione per il gioco più bello del mondo, tanto che non rimproverava mai un compagno per uno sbaglio ma era intento solo a inseguire il gol. Anche quando le leggi della fisica glielo volevano impedire.
Accadde contro la Juventus, quando la barriera dei bianconeri era troppo vicina al pallone, ma lui confidò al compagno di squadra che avrebbe segnato ugualmente. E infilò la sfera all’incrocio dei pali. Poesia.
Il suo secondo gol all’Inghilterra ai Mondiali del 1986 era esattamente quello che Pasolini definiva poesia quando distingueva l’azione solitaria del campione della prosa del fraseggio.
E il primo rifilato ai britannici descriveva la sua furbizia, anche quella essenza del calcio. La “mano de Dios” fu una scorrettezza, ma compiuta da lui è stata un verso di un poema bellissimo, quale fu quel campionato mondiale in Messico.
Furbizia, come quando si alzava sulle punte mentre si faceva fotografare tra i connazionali Barbas e Pasculli, a Lecce (nella foto di copertina, con Pedro Pablo Pasculli).
Io c’ero. Amavamo anche quello. Poco ci importavano le sue intemperanze, perché guardavamo la luna e non il dito che quello scugnizzo argentino ci indicava.
Genio. Quindi sregolatezza. Lo accettavamo. Lo perdonavamo sempre, pur di rivederlo in campo. Gli perdonammo la droga.
E una punta di amarezza sorgeva nell’ammirarlo al campionato mondiale statunitense: segnò alla Grecia ma non era più lui. Per noi calciofili resta quello di Napoli, la sua piazza ideale.
Già, portando l’orecchino non avrebbe mai potuto giocare nella Juventus dell’avvocato Agnelli. Ma lui, nonostante lo stile, era ammirato anche dai monarchi torinesi. E Sacchi era attento a organizzare il suo grande Milan contro il Napoli perché, riferì, sapeva che dall’altra parte c’era il più bravo di tutti.
Poesia, armonia, divertimento. Si scriverà tantissimo di lui, ma abbiamo appreso della sua morte qualche ora fa e nella memoria si accavallano assist e gol. Spunta una coincidenza: Diego muore il 25 novembre, come quel “pazzo” di George Best, spirato quindici anni fa. Lascia il vuoto che emerge quando muore un re.
Basta.
È noioso commentare la poesia quando si è innanzi ad essa. Meglio ascoltare i versi, farsi accarezzare dal loro suono, assaporarli, unirsi a essi. E così, ora, la mano cade innanzi all’immagine indelebile della poesia del calcio.______
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