UN PREMIO NOBEL BEN ASSEGNATO. UN NOSTRO GIOCHINO LETTERARIO, SUI RAPPORTI FRA LA GLUCK E LA DICKINSON
di Raffaele Polo______
Nelle raccolte di giochi enigmistici e parole crociate, a volte capita una nota, nelle spiegazioni del gioco: Destinato ai solutori più abili.
Questa scritta è, in realtà, un incentivo a risolvere proprio quel cruciverba o quella amenità di complicazioni incrociate. Per non parlare dell’ormai proverbiale ‘Quesito con la Susi’ che è, effettivamente, destinato ai più pazienti e dotati frequentatori dei misteri dell’enigmistica….
Il preambolo è necessario per quello che leggerete un po’ più giù, perché questo pezzo è veramente destinato ai più provetti letterati che, magari en passant, ci dedicano qualche minuto di attenzione.
Allora: partiamo da lontano, diciamo cosa è il Premio Nobel (per la letteratura). Non è un riconoscimento al più bravo, al più letto, al più venduto tra gli scrittori mondiali. È, al contrario, un vero e proprio incentivo, una sorta di suggerimento perché si frequentino anche le vie meno pubblicizzate e utilizzate dell’editoria che, non lo dimentichiamo, è un’industria con le sue regole e i suoi fatturati.
Il Nobel serve a spiegare che anche l’Africa, il Medio Oriente, l’Australia, la Sardegna (ai tempi del Fascismo) e la Padania (prima di Bossi e Salvini…) hanno una loro letteratura, con opere e autori di pregio. Ed è un peccato che vengano trascurate solo per acquistare, in milioni di copie, i romanzi di Dan Brown…
E così, il Premio Nobel viene particolarmente atteso proprio perché ci aiuta a scoprire entità letterarie meno fortunate e conosciute, autori che soffrono e hanno tanto da dire ma non sono abbastanza ‘utili’ alle casse degli editori e dei distributori.
Ora, mai come quest’anno, con la pandemia in corso e l’obbligo quasi forzato di riscoprire la lettura tra le mura di casa, sono mutati i gusti letterari e i messaggi che caratterizzano la misteriosa e reciproca percorrenza intellettuale tra chi scrive e chi legge. E abbiamo ri-scoperto vecchi testi, romanzi che avevamo letto, ci erano piaciuti, ma avevamo riposto definitivamente nei piani alti della libreria.
E sapete quale è stato il risultato nascosto ma di spessore che tutto ciò ha prodotto? Che siamo diventati dei lettori migliori, non più disattenti e superficiali ma pronti anche a rileggere una frase, una pagina due tre volte, cercando di assimilarla al meglio. E abbiamo ripreso in mano i libri di poesia, quelli che proprio gli editori ormai disdegnano e stampano, con un sorrisino malcelato, in un centinaio di copie tanto, dicono, non li acquisterà nessuno.
E giusto il premio Nobel di quest’anno va alla poetessa americana Louise Gluck (nella foto di copertina, anno 1977) che hanno già definito intimista, neoromantica, concettuale, minimalista, pessimista e via dicendo. Con un pizzico di umorismo potremmo aggiungere tante altre definizioni, tutte inutili e limitative perché la Gluck è una donna che coglie i sottili messaggi del nostro tempo, li filtra con una innata sapienza e ce li ripropone con modestia e umiltà (senza paroloni, sena enfasi o catarsi, insomma), pur cogliendo a piene mani dai miti immortali degli antichi.
Ora, qualcuno l’ha accostata a Emily Dickinson (nella foto sotto, in un ritratto della metà del MilleOttocento). Più che altro perché noi europei della letteratura anglo-americana conosciamo solo una poetessa, famosa più per il suo amore sfortunato che per i versi che ci ha lasciato…
Ma veniamo a noi: vi propongo, di seguito, due brevi poesie. Sta a voi, solutori più abili, stabilire quale è della Dickinson e quale della Gluck.
Il massimo
è non avere
mente. Sentimenti:
oh, quelli ne ho; mi
governano. Ho
un signore in cielo
che si chiama sole, e mi apro
per lui, mostrandogli
il fuoco del mio cuore, fuoco
come la sua presenza.
Che altro può essere una simile gloria
se non un cuore? Oh, sorelle e fratelli,
eravate come me una volta, tanto tempo fa,
prima di essere umani? Vi
concedeste di aprirvi
una volta per poi non aprirvi
mai più? Perché in verità
adesso io sto parlando
come voi. Io parlo
perché sono distrutta.
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Fra le mie dita tenevo un gioiello
Quando mi addormentai.
La giornata era calda, era tedioso il vento
E dissi “Durerà”.
Sgridai al risveglio le dita inconsapevoli
La gemma era sparita.
Ora solo un ricordo di ametista
A me rimane.
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Fatto? Effettivamente c’è da pensarci, E sapete cosa significa? Che il messaggio che ci mandano queste due sensibili poetesse è simile e da condividere in toto. Guardiamoci intorno e scopriamo il vero senso della Vita, dell’Amore, del Creato. Al di là di ristrettezze geografiche e razziali, senza preoccuparci di quali siano i mali del nostro tempo, ma avvicinandoci a quella grande Speranza che solo la Poesia può dare.
Bravi, allora, gli accademici che hanno assegnato alla Gluck il Nobel: per indicarci la sua opera che, come afferma chiaramente la motivazione, “Con austera bellezza rende l’esistenza individuale universale”.
Da aggiungere soltanto che gli esperti dicono che il cognome della poetessa va pronunciato come ‘Glick’. Assurdo. Se ci si sforza di inserire in bellavista sulla u del cognome la umlat che ci dice come va pronunciata quella vocale, perché specificare che NON si legge come andrebbe letto? Soliti americani, verrebbe da pensare…. E ci consoliamo col fatto che noi, ignoranti italiani, di Gluck conosciamo soltanto il ragazzo di Adriano Celentano.
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LA RICERCA nel nostro articolo dell’altro ieri
Category: Cultura