IL ROCK, LE RIVISTE, I LIBRI, GLI AMORI E UN PO’ DI SALENTO: UN MUCCHIO SELVAGGIO
A leccecronaca.it MAX STEFANI RACCONTA CINQUANTA ANNI DI PASSIONI
di Roberto Molle______
Di norma quando si leggono articoli, interviste, approfondimenti e recensioni musicali non ci si domanda chi ci possa essere dietro a quel lavoro di ricerca e ascolto critico che permetterà di orientarsi nella babele di proposte discografiche che quotidianamente, a centinaia, invadono i negozi di dischi (quelli fisici in profonda crisi, purtroppo) e i tanti store-online.
Al giorno d’oggi a un appassionato di musica basta fare un giro nella rete e consultare migliaia di informazioni musicali sulle tantissime webzine (alcune abbastanza professionali, altre un po’ meno), ma prima dell’avvento di internet erano le riviste specializzate che permettevano agli appassionati di farsi una cultura musicale e orientarsi attraverso i vari generi (dal rock, al folk, dal country al jazz).
Il lettore aspettava quell’appuntamento (generalmente mensile) per fare la scelta dell’acquisto di un vinile o di un cd, fidandosi della recensione scritta da uno dei tanti collaboratori, spesso giovanissimi e malpagati.
Veniva a crearsi tra il popolo dei lettori e lo staff delle redazioni un’empatia che spesso finiva con il coincidere con un senso di appartenenza. I giornali che scrivevano di musica erano tantissimi (almeno durante gli Ottanta e i Novanta) ma quelli che lo facevano con professionalità si contavano sul palmo di una mano. Tra quelli che più hanno segnato lo scrivente (e in qualche misura lo hanno formato) c’era “Il Mucchio Selvaggio”.
Nato verso la fine degli anni Settanta e vissuto per poco meno di quarant’anni, a fondarlo e dirigerlo per quasi tutto il tempo è stato Max Stèfani (nella foto). In occasione dell’uscita in contemporanea di due suoi libri abbiamo fatto quattro chiacchiere con Max e gli abbiamo posto qualche domanda relativa al suo passato e al suo presente. Ma prima ecco qualche informazione per farsi un’idea sull’uomo.
Max Stèfani (classe 1951) inzia a scrivere nel 1971 per la rivista hi-fi “Suono”, dove cura la parte musicale Music box fino al 1980. Cura anche i primi numeri di “Stereoplay” (1973-1975). Nel 1976 dirige i primi due numeri di “Popstar/Rockstar”. Nel 1977 fonda “Il Mucchio Selvaggio”, che ha editato e diretto fino al febbraio 2011. Come editore ha creato anche “Rumore”, “Chitarre”, la rivista di cinema “Duel/Duellanti”, il sito “Rockol”, la rivista di libri “Pulp”. Durante gli anni ottanta è stato corrispondente di cinema dall’Italia per la rivista francese “Starfix”. Dal 2013 al 2014 ha diretto il mensile “Outsider”. Ha collaborato con “La Repubblica” e “L’Europeo”. Ha pubblicato otto libri (e altri due sono in arrivo) sul mondo del rock e del blues.
Questo è quello che Max Stèfani ci ha raccontato.
D: Allora Max, partiamo dalla fine. Questo periodo di lockdown ci ha costretti tutti in casa privandoci di molte libertà, allo stesso modo ha permesso a chiunque stesse lavorando a un libro di concentrarsi e dedicargli tutto il tempo senza interruzioni. Nel tuo caso i libri sono due e so che hai appena finito di scriverli, pronti per essere mandati in stampa. Si tratta di due poderose biografie (corredate da interviste, testimonianze, articoli d’epoca e splendide foto) dedicate ai Lynyrd Skynyrd (e al southern rock) e al grande musicista blues John Mayall (e al britsh blues dei ’60), ce ne vuoi parlare?
R: Sì, sono sempre stato dell’idea che bisogna, per vivere meglio, guardare il bicchiere sempre mezzo pieno invece che quello mezzo vuoto. Vale anche per questa tragedia che ci ha colpiti tutti quanti. Chiuso in casa, vivo felicemente da single (dopo 4 figli con tre donne differenti) è venuto quasi automatico dedicarmi ai miei hobby, musica, film serie tv, letture, ascolti e scrivere.
Hobby che poi sono e sono stati anche il mio lavoro. Quindi ho finito questi due libri, altri ne ho portati avanti (un romanzo che non finirò mai, due sceneggiature di film, una mia biografia). Il primo narra le gesta di John Mayall e del ‘british-blues’, genere di cui sono da sempre amante e che ho conosciuto dal vivo nei miei passaggi londinesi nella seconda metà dei famosi sixties, la ‘swinging London’, quella della minigonna etc.
Per i meno esperti, si tratta della storia negli anni sessanta a Londra, di questo fenomeno che include nomi come Cream, Fleetwood Mac, Free, Animals, Rolling Stones, Jethro Tull e meno conosciuti come Graham Bond, Alexis Korner, Duster Bennett, Aynsley Dumbar, Killing Floor, Cyril Davies, Jo-Ann Kelly… Come al solito facendo parlare loro e inquadrandoli nel loro periodo storico sociale-musicale. Con quello su i Lynyrd Skynyrd si attraversa l’Atlantico e si parla delle band southern e le jam-band degli anni settanta, un decennio dopo, come Allman Brothers etc. Due aree mediamente conosciute dagli esperti, quasi per niente dalla grande massa di italiani.
D: In realtà questi due libri sono solo gli ultimi di una lunga serie che hai iniziato a pubblicare dal 2016. Partendo da “I quattro cavalieri dell’apocalisse”, dove racconti la storia di quattro tra i più importanti chitarristi inglesi viventi: Peter Green, Jimmy Page, Jeff Beck ed Eric Clapton; passando per “Happy trails”, dove vengono scandagliate le vite di altri sei straordinari chitarristi, questa volta americani (da Duane Allman a Stephen Stills e Jerry Garcia, da Mike Bloomfield a Jimi Hendrix e Jorma Kaukonen). Poi ancora “California Dream” (su Jackson Browne, Gene Clarck, Ry Cooder, etc.); “Beautiful Winners 1960/1980” (Bruce Springsteen, Bob Seger, Steve Miller Band); in “In rock we trust” racconti la storia dei più importanti giornali e degli altri media che si sono occupati di musica dal 1950 ad oggi in Italia. Nel 2019 è uscito “Freefallers” dedicato ad altri mostri sacri del rock: Tom Petty and Heartbreakers, Steve Nicks e Fleetwood Mac. Infine due volumi sul progressive dedicati a Genesis, ELP, Jethro Tull e King Crimson. Tanta roba, sinonimo di amore viscerale nei confronti di un certo tipo di rock. Si potrebbe concludere che non sei mai impazzito per il punk e suoi derivati, per il grunge, il techno, l’industrial e qualsiasi altro suono che si sia mosso sulle coordinate degli ’80 in poi. Vien da dire che anche per un grande giornalista musicale come te alla fine tutto si può ridurre a una mera questione generazionale che rischia di intaccare quel distacco necessario nel giudizio critico sulla musica con cui ci si sta confrontando o recensendo. Che ne pensi?
R: Ovviamente la musica a cui si rimane attaccati per tutta la vita è quella dei tuoi 18 anni. Quindi, dipende da quando nasci. Può essere l’età del rock and roll (50), del rock (60) del punk new-wave fine anni 70, del grunge, della musica elettronica etc. ‘de gustibus non est disputandum’, quindi ognuno dichiara la propria passione e scarta quella degli altri. Però, ritenendomi un professionista, so vedere quanto c’è di buono in ogni genere. Ho le orecchie allenate insomma. E’ chiaro che non posso non accorgermi di tante cose che un ragazzo normale, che non ha fatto la mia vita e fatto le mie esperienze, non vede. Viaggiando, parlando, frequentando l’ambiente (intendo case discografiche, produttori, musicisti, promoter etc.) acquisisci uno sguardo più attento, più scaltro.
D: Chi ti conosce sa che sei sempre stato molto sopra le righe, fregandotene delle convenzioni e tirando dritto verso quello che ritieni giusto. E i fatti lo confermano. Hai iniziato collaborando con riviste specializzate di hi-fi dove curavi recensioni di dischi spesso introvabili in Italia, hai fondato diverse testate, hai dato vita al “Mucchio selvaggio” che hai diretto per quasi quaranta anni permettendo a migliaia di appassionati di essere informati non solo sul rock, ma anche su molto di quello che gli ruotava intorno (libri, cinema, teatro, politica). Dal Mucchio sono passate molte firme, alcune autorevoli, altre un po’ meno (c’è passato anche un misconosciuto, almeno per l’epoca, Andrea Scanzi), come facevi a tirare le fila avendo a che fare con tante personalità diverse, irrequiete, spesso eccentriche?
R: Io mi sono sempre visto più come editore/direttore che come giornalista. Diciamo un allenatore in campo, per usare un terminologia sportiva. In un giornale crei una squadra e cerchi di farla funzionare meglio possibile, tirando fuori da ciascuno il meglio. Compri e dai via quelli spompati e cerchi sempre di alzare la qualità. Però ti fai un sacco di nemici. Anche qualche amico, ma molto pochi. Non è una cosa che s’impara anche se una laurea in psichiatria non sarebbe male. Gli psicopatici sono tanti. C’è gente che dopo anni continua a diffamarmi in rete che è… incredibile. Più ti devono qualcosa e più sono incattiviti. Poi in questo caso la Legge è inutile. Non funziona.
D: Nel 2011 hai lasciato la direzione del “Mucchio” nello sconcerto di migliaia di lettori, tra l’altro i tempi stavano cambiando, le riviste di musica cominciavano a chiudere, il web era ormai una realtà che permetteva tantissima informazione musicale gratis, insomma tutto si faceva in salita ma il giornale che dirigevi era in qualche modo solido. Credo che la classe non sia acqua, e per quanto si possano mettere in discussione (come è stato fatto) alcuni aspetti del tuo carattere e del tuo operato, a molti era chiaro che la spina dorsale su cui si reggeva l’impalcatura del “Mucchio” eri tu. Difatti dopo non molto dalla tua defezione il giornale ha chiuso. Senza entrare nello specifico delle cause che te ne hanno allontanato, oggi dovessi tracciare un bilancio che diresti?
R: Forse poteva finire anche in altro modo, se avessimo avuto tutti un po’ più di consapevolezza del proprio essere. Mi ci metto anche io nel mezzo. Negli ultimi anni avevo quasi un senso di fastidio nei confronti della redazione e del mio braccio destro che facevano fronte comune contro di me. Eravamo due cose distanti. Il che portava a un mio completo disinteresse e a frequenti violenti scontri con la mia segretaria, da me messa nel ruolo di amministratrice della casa editrice, e membri della redazione che remavano tutti contro di me, reo di sfruttarli e di fare un giornale troppo ‘fuori dalle regole’. Una situazione che avevo già vissuto nel 1988, quando successe una cosa simile (guarda caso con due stessi protagonisti) che portò alla nascita della rivista “Velvet”.
Abbiamo perso tutti, anche se alla fine è la storia che ci ha sorpassato. Da tempo non ha più senso un giornale di musica quando su internet trovi di tutto e di più, prima e gratis. E anche di qualità migliore, se sai dove cercare. Aggiungiamoci anche la crisi della filiera che porta un giornale in edicola, la qualità della musica che esce, il crescente disinteresse verso la lettura, la conseguente penuria di denaro a disposizione (e quindi foto e giornalisti di secondo piano in quanto costretti a lavorare gratis), si capisce come non ci sia futuro e neanche presente.
Io penso che il Mucchio sia stato molto di più di un giornale di musica, in questo unico nel suo settore, ma di questa cosa siamo solo noi a esserne certi. C’è stato un periodo (dal 1990 in poi) in cui siamo stati assolutamente convinti che ‘una rivista di musica e cultura rock’ poteva rendere il mondo un posto migliore. L’abbiamo vissuta come una missione e, ancora oggi, penso che se ci avessero dato più ascolto, avremmo inciso di più sul paese Italia. Da quello strano mix di personaggi e personalità diversissime, stile e gusti opposti, nasceva un giornale che inseguiva un’idea diversa di cultura e informazione. Una strana forma di militanza, continuamente sorvegliata da un pubblico implacabile. La più bella caratteristica del ‘mio’ Mucchio è che faceva spesso cose dove non arrivavano gli altri.
D: A un certo punto, nel 2013 ti inventi una nuova rivista musicale che chiami “Outsider”. Con un taglio molto particolare e una scelta editoriale coraggiosa e pericolosa allo stesso tempo. In tempi così frenetici dove i giornali che trattano di musica si arrovellano per imbottirli di quante più recensioni possibili di dischi (spesso striminzite e superficiali), di arrivare sul pezzo e sulle interviste ai musicisti sgomitando per ottenerle prima della concorrenza e piegandosi spesso a marchette dando spazio a dischi e musicisti che con il rock c’entrano poco e niente, tu decidi di inserire in “Outsider” pochissime recensioni e molte retrospettive e interviste a grandi musicisti intervistati perlopiù da giornalisti e critici che non rispondono alle anagrafi italiane. Perché quella strategia?
R: Era l’uovo di Colombo. L’unico modo per sopravvivere. Ho seguito l’esempio del settimanale ‘Internazionale’, ma sulla musica. 90% di traduzioni dalla stampa estera, vecchia e nuova. Nessun collaboratore, nessun scazzo, potere assoluto. Però costava molto. Carta di qualità e si pagava tutto. Photo, traduttori etc. Purtroppo dopo un anno e mezzo, quando il giornale era in pari, il ‘mecenate’ ha mollato. Un po’ per problemi suoi, un po’ per la solita storia di donne. Così ‘Outsider’ ha chiuso i battenti nel dicembre 2014. Peccato.
D: A quel punto invece di fare come tanti colleghi che si sono reinventati collaborando ad altre riviste che tengono ancora botta (da “Rumore” a “Blow up”, a ”Rockerilla” e “Buscadero”), hai scelto di ritirarti. In realtà recentemente hai lavorato su Raiuno per diversi mesi a Unomattina, dove hai cercato di parlare di rock in una fascia oraria non propria favorevole per il genere. Eri un alieno?
R: Bella esperienza quella in Rai a ‘unomattina’. Per me che venivo dalla carta stampa era un modo appunto ‘alieno’, per le dinamiche, ma professionalmente è stato istruttivo e ho anche scoperto di essere bravo in video. Come si dice nell’ambiente… ‘bucavo lo schermo’. Chiaro che il programma non era il mio orto ma pur con tantissime limitazioni (avrebbero voluto Al Bano e Romina tutti i giorni, non potevo usare i video?!?) ho fatto delle cose pazzesche. Mi guardavano tutti come un matto. Però da un lato io stroncavo Zucchero e 5 minuti prima al TG1, Mollica l’aveva appena incensato. Capisci che nel momento in cui mi è mancato l’appoggio politico (cambio di direttore di RAI1) sono stato fatto fuori 12 ore dopo. E in quegli 8 mesi (attenzione, gratis) non sono stato capace di trovarmi uno spazio su un’altra rete RAI, come RAI5 dove fare cose più adatte a me. In Rai se non hai un politico dietro le spalle non vai da nessuna parte.
D: La cosa che mi ha colpito sin dall’inizio della tua carriera di “scrittore” post-Mucchio è il fatto di aver pubblicato tutto senza contare sull’editoria tradizionale, bypassando per la distribuzione le catene delle librerie fisiche (per la verità anche la distribuzione di ”Outsider” era abbastanza anomala, disponibile solo in alcuni punti vendita e negli aeroporti) e quelle online, privilegiando il crowdfunding, tra l’altro boicottando le piattaforme dedicate. Ne vogliamo parlare?
R: Io ho sempre fatto l’editore e finché ho potuto, ho usato i veicoli tradizionali. Nel momento in cui ho dovuto per forza abbassare i numeri, la grande distribuzione non va più bene. Ti strozzano. Meglio una cosa fatta in casa dove rischi ma se hai una platea di 2000 persone che ti seguono da anni, puoi permetterti di fare cose di qualità senza dare il 40-50-60 % a chi ti porta e vende il materiale. Alzi la qualità e abbassi la quantità. Non guadagni tanto ma bisogna sapersi accontentare e non hai nessuno tipo di censure. Puoi scrivere quello che vuoi. La libertà. Che come sai nell’editoria è merce rara. Insomma sono un ‘outsider’.
D: Da ultimo volevo chiederti lumi proprio su un aspetto di “Outsider”. Nelle note all’interno della rivista si leggeva che avesse sede a Maglie e la ‘Revenge’ (la società che la produceva) a Cutrofiano, capirai che da salentino queste cose all’epoca mi incuriosivano molto. Sapevo di un tuo legame importante col Salento e ho pensato che questo c’entrasse in qualche modo. Puoi togliermi questa curiosità?
R: Sì, cosa strana. La fine del Mucchio è coincisa con la nascita di due bambine. Trovandomi senza soldi, mi sono trasferito a Gallipoli, dove vivono i familiari della mia ex moglie. Quindi molti vantaggi. Bel clima, la vita costa meno, gli aiuti, il tennis a Tuglie dal mio amico Mino. È poi successo che un mio vecchio lettore, Roberto Gallo, aveva una fabbrica di cappelli a Maglie, collegata in qualche modo alla Borsalino. Questa persona squisita, decise di finanziarmi il giornale con circa 100mila euro a fondo perduto, e mettemmo la redazione a Maglie. Mi sono proprio divertito. Bel periodo. Peccato che poi sia finito. La società la chiamammo ‘Revenge’ perché sia io che lui dovevamo avere una ‘rivincita’. E c’è mancato un filo… poi è anche morto per infarto mi pare nel 2016. Ho lasciato il Salento a malincuore quando mi sono diviso da mia moglie. Ho lasciato molti amici.
D: Un flash guardandoti indietro?
Di una cosa sono sicuro, di avere la coscienza a posto. Al massimo posso rimproverarmi di essere stato un fesso, di non avere avuto la capacità di leggere bene di chi mi circondavo, di non aver avuto nessuna capacità di ‘amministratore’ (io e i soldi proprio non andiamo d’accordo) ma me ne sono fatto una ragione e quando sono arrivati i momenti bui ho avuto la capacità e la forza di guardare avanti, lasciandomi alle spalle brutte storie. Come diceva Springsteen …. ‘beh il tempo scivola via e ti lascia senza niente se non noiose storie di giorni gloriosi’ (Glory Days).
Category: Cultura