LETTURE A TEMA PER QUESTE SERE DI SOLITUDINE. DAI CORPI STRAZIATI DESCRITTI DA TUCIDIDE, ALLA CATASTROFE SOCIALE RACCONTATA DAL BOCCACCIO. E UN GIRO IN LOMBARDIA CON il protofisico Lodovico Settala
di Giuseppe Puppo______
Queste le mie scelte, con cui ho consumato le ultime serate. Uscire il meno possibile? Non frequentare incontri e manifestazioni, del resto quasi tutte nel frattempo annullate? Non toccare e non abbracciare nessuno?
E va bene. Pigliamo qualche libro in mano, allora.
Così ho voluto rimanere in tema, a mio modo di intendere un salutare esercizio intellettuale, buono anche ad esorcizzare l’umana paura: adesso vi racconto le mie impressioni e book books a tutti.
Non potevo che cominciare da Tuciddide, secondo me il più grande storico in assoluto, che ci ha lasciato, nel II libro della sua “La guerra del Peloponneso”, la prima per tanti versi memorabile descrizione letteraria di una pestilenza.
Brano che ho letto per intero per la prima volta: mi brucia ancora il ricordo di un passo dato come versione in classe che al Liceo fece una strage ancora maggiore di quella descritta, a colpi di 2 e di 3, da cui non si salvò nessuno di noi, finiti tutti con la media compromessa e costretti ai salti mortali per non essere rimandati.
L’ho letta nella tradizione in italiano, ma con testo greco a fronte, su cui però ho evitato accuratamente di misurarmi, dati gli infausti precedenti.
Siamo ad Atene nel 430 a. C.
Sentire l’incipit memorabile e i paragoni con i giorni nostri fateli voi. Tucidide comincia così:
“Era l’estate del 430 a.C. e iniziava il secondo anno della guerra, quando la peste cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi: si diceva che anche prima fosse scoppiata in altri luoghi, tuttavia non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte una peste talmente estesa né una tale strage di uomini. Né i medici erano di aiuto a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta…
Se qualcuno aveva già qualche indisposizione, in tutti i casi essa finiva in questa. Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi…Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. ..”
Alla descrizione nuda e cruda della malattia, l’autore fa seguire considerazioni sulle conseguenze sugli usi e costumi del tempo:
“Anche per altri aspetti la malattia segnò nella città l’inizio di un periodo in cui il disprezzo delle leggi era più diffuso. Infatti più facilmente si osava fare cose che prima di allora si facevano di nascosto, senza mostrare che si seguiva il proprio piacere: vedevano che era rapido il mutamento di sorte dei ricchi, che morivano improvvisamente, e di coloro che prima non possedevano nulla, ma che subito divenivano padroni dei beni dei morti….Tutti pensavano che molto maggiore fosse l’incombente punizione già decretata contro di loro, e che prima che si abbattesse fosse ragionevole godersi un po’ la vita”.
Riprende tutto quanto Lucrezio e lo mette a conclusione della sua monumentale poema “De Rerum Natura”. Una descrizione nuda e cruda alla Tucidide, con enfasi poetica, tutto qui. Piuttosto, il problema è un altro: perché il poeta filosofo volle finire tracciando uno scenario apocalittico la sua opera volta a celebrare letterariamente nella Roma del I secolo a.C. le virtù degli insegnamenti di Epicuro, che voleva liberare gli esseri umani dalle passioni e dai falsi bisogni?
Non lo so, ma questo è.
Poi ho fatto un balzo in avanti di tredici secoli e ho ripreso in mano il Decameron di Giovanni Boccaccio: quasi tutti abbiamo letto almeno qualcuna delle sue novelle, ma pochi sanno che l’opera inizia appunto con una descrizione della terribile pestilenza che si abbatte su Firenze nel 1348.
Anche Boccaccio non è certo delicato nella descrizione degli effetti, non si fa mancare niente, polemica con i medici – e dagli! – compresa: “A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo)”.
Quello che più mi ha colpito comunque è la notazione dell’autore su come l’emergenza sanitaria abbia disgregato il tessuto sociale della città, abbia sconvolto i normali rapporti e abbia provocato anche una catastrofe economica.
Poi, gran finale, ho riletto i capitoli XXXI e XXXII de “I Promessi sposi”.
“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia….
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi….
Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione…
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste ; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace”.
Tutto incredibilmente attuale, tutto memorabile.
Non voglio dire quel che ho provato io, ognuno dai libri cava e tiene quello che meglio crede.
Ma voglio significare questo, senza con ciò voler fare la morale a nessuno.
Alessandro Manzoni è di una straordinaria modernità.
In queste pagine (ri)troverete le polemiche fra gli scienziati, e i problematici rapporti fra gli scienziati e i politici; l’avversione per tutto quello è, o si reputa estraneo; la paura per quel che non si conosce; la caccia al paziente zero; gli errori madornali compiuti, sia pur in buona fede; l’accaparramento e le speculazioni sui generi di prima necessità, e potrei continuare a lungo, finisco aggiungendo solo dell’implicita sua esortazione a non perdere l’umanità, o quel che ce ne resta, ai tempi dell’emergenza.
E ‘stasera?
Che domande?!? ‘Stasera mi leggo il romanzo “La peste” di Albert Camus.
Grazie per i suggerimenti!