LA REPLICA A COPERTINO, A ‘SCENA MUTA’ DEL MAESTRO IVAN RAGANATO, DE “La Dea Trans” VINCE, CONVINCE E AFFASCINA
di Carmen Leo______
“Che piaccia o no, io so amare, anche quando non lo dico. Ma a tutti voi, per l’ ultima volta, estremo omaggio al mondo, io, ho voluto gridarlo”.
Le battute finali, con Ivan Raganato che per la sua Dea ha costruito per gli ultimi minuti dello spettacolo un’invenzione scenica geniale, di straordinaria fisicità, pur nella dimensione spirituale, resa straziante poi dai canti funebri in dialetto salentino, dai lamenti, dalla disperazione visiva della prefica Sandra Maggio che gli/le fa da contraltare terreno in scena.
Sipario.
Standing ovation, dopo un’ora e mezzo di partecipazione numerosa, solidale, affettuosa e complice dei tanti spettatori, che hanno creato anch’essi insieme agli altri.
La nuova replica, ieri sera, a Copertino, volutamente organizzata presso la sala della Compagnia Scena Muta, conferma e amplifica, nella sicurezza, nella convinzione, nella lucidità, nella maturità dell’impianto scenico e dei protagonisti, conferma e amplifica, la sostanza artistica della pièce “La Dea Trans”, che al suo debutto, il 4 dicembre scorso, al Teatro Apollo di Lecce, registrò il sold out con settecento biglietti venduti, in un equilibrio pressoché perfetto.
Ideata e scritta da Giuseppe Puppo, adattata e diretta, oltre che interpretata nel ruolo principale da Ivan Raganato, ieri sera l’opera, forse perché senza l’ansia e lo stupore della ‘prima’ al debutto, probabilmente anche per la dimensione più raccolta della location, ha rimandato in sala ancora maggiore lucido incanto, e consapevole riflessione, sulle tematiche della storia leccese più recente, e su quelle universali della decadenza, della solitudine, dell’emarginazione.
La Dea Trans è Carlotta, al secolo Carlo Paiano, che da giovane promettente ballerino muove i suoi primi passi di danza sul palco del Teatro Politeama Greco, nella Lecce bene dei primi anni Settanta, quegli anni difficili, tra lotte politiche e velleità artistiche, in cui rivela la propria natura, giudicata a dir poco libertina da quel nostro ancor troppo bigotto profondo Sud d’Italia.
Da qui la decisione di spiccare il volo verso mete più promettenti, sul palcoscenico “di questa cinica, interminabile partita a poker che si ostinano a chiamare vita”.
A Firenze Carlo mette in atto la imprescindibile metamorfosi che lo tramuterà in Carlotta, quel suo Alter Ego tanto combattuto e represso nella città natale, che qui emerge con prepotenza dirompente, proprio come il suo corpo da pin-up, da bomba sexy che fa, in breve tempo, girare la testa ad una moltitudine maschile appartenente a tutte le sfere sociali dell’epoca, in fila chilometrica alle Cascine, come in coda ai night clubs più in voga della Versilia.
“Tutti la cercano, tutti la vogliono”, come canta Nandu Popu, autore del brano musicale originale che arricchisce la rappresentazione.
Ma poi le luci della ribalta iniziano a spegnersi una dopo l’altra.
Un implacabile inizio di decadenza fisica si aggiunge ad una compromessa ed instabile “conditio mentis”, tanto da indurre Carlotta a far calare volontariamente e dolorosamente quel tanto agognato sipario e, chiudendo i sogni e lo scintillio di quel mondo dorato ed effimero nella sua pesante valigia, farla ritornare, sconfitta e lacerata dentro, nell’amata quanto odiata Lecce.
La sua città diviene per Lei prigione ed isolamento tra le mura domestiche, che si trasformano in sarcofago occulto del suo corpo non più gradito, principalmente a se stessa. Ed è proprio lì, tra quelle quattro mura stantie che il corpo della Dea, ormai spoglio da lustrini e paillettes, viene rinvenuto, derelitto ed esanime,senza vita, in quell’ afoso agosto 2017, a 57 anni, “too young to die, too old to rock’n’roll”.
Ivan Raganato ha ridato vita ad una personalissima Carlotta, frutto di una ricercata introspezione, caratterizzata da sfumature di colori, a tratti accesi, che si vanno via via sbiadendo, a mano a mano che riflettono il grigiore psicologico di quell’anima tormentata.
Il pubblico presente in sala ha ascoltato, raccolto in reverenziale silenzio, il suo toccante monologo iniziale della Dea, quasi paralizzato dallo strazio di quell’anima alla ricerca anelante e vana dell’Amore, quello che “esalta e consola”, quello che dona l’estasi dei sensi e la letizia del cuore.
Nel finale, invece, dietro un enorme ventaglio, miracolosamente apparso sul palco, traspare la Dea nel candore delle sue vesti, allegoria dell’anima fanciullesca e innocente di Carlo, in netta antitesi alla lussuria, lascivia, bramosia, spesso suscitate. Il canto colorato di folklore della prefica inneggia ad una disperata catarsi dello spirito, che tenta di liberarsi da quell’involucro terreno, non essendosi mai entrambi realmente e totalmente appartenuti.
Toccante, penetrante, battagliero, il monologo, di attacco, più che di difesa, dell’avvocato di Carlotta, impersonato da Maria Antonietta Vacca, magistralmente impegnata a rendere l’ anima della sua assistita, più che il “corpo del reato”.
Risalto più che doveroso occorre dare al brano interpretato live dal magico Nandu Popu, che aggiunge musicalità e sogno alla storia narrata.
Bravissimi tutti gli altri attori, ieri sera sicuri, creativi, espressivi, perfetti nella dizione, così come nella resa teatrale dei rispettivi personaggi.
Il bar Poker di Lecce degli anni Settanta, con Radio Rama di Max Persano in sottofondo, ricostruito nei suoni, nelle voci, sembrava di toccarne la realtà, di sentirne i sapori, respirarne i profumi, nella resa scenica di Rosario Paiano, Luca Trevisi, Fabrizio Rollo, Pino Imbriani, Francesco Buccarella e Luana Chiriatti, in una lunga scena iniziale, divertita e divertente, soprattutto vera, più che verosimile.
Così come sembrava di stare negli uffici della Polizia di Stato della Firenze dell’ epoca, con il povero commissario Mauro Martina tartassato dalle lamentele telefoniche, per i chilometri di code d’auto al “puttan tour” di ogni notte, del Questore, del Prefetto e del Cardinale, cui, in mirabile eloquio fiorentino, fa fronte con grinta e determinazione, anche perché qualcosa da nascondere ce l’ha anche lui…
Alisia Mariano che, ballando “La morte del Cigno” di Camille Saint-Saëns, consigliata dalla maestra di danza Clara Camisa, ha realizzato il sogno infranto di Carlotta, resa nell’età infantile invece dalle apparizioni di una ballerina in erba, la piccola, deliziosa Emma Macchia.
Dalila Grandioso che si è agganciata all’attualità nei panni di una giornalista televisiva.
Il dialogo delle amiche storiche interpretato da Cristina Prenner e Patrizia Guido che hanno esaltato l’intensità del testo, in quel punto riflessivo e personale, personalissimo, con le loro riflessioni giocate sul filo dei ricordi del sodalizio giovanile del cenacolo privato chiamato Bergerac, fino ai rapporti diradatisi nel tempo e nello spazio, con Carlotta: “Scusa i mancati giorni…”.
Stefano Donno ha interpretato egregiamente…sé stesso, un editore, che nella fattispecie va alla ricerca delle poesie mai trovate di Carlotta: e accanto a lui, Monia Marulli che ne recita un frammento, l’unico recuperato, e poi a seguire un componimento della giovanissima poetessa leccese Chiara Evangelista particolarmente appropriato, “Avrai una donna con le occhiaie”.
Una Giulia Spedicato disinvolta, spigliata, attraente, in alcune introduzioni narrative, di raccordo, fra le varie scene.
Ancora una menzione d’onore nella fattispecie al tecnico del suono e delle luci Alessandro De Pascalis, e a Tonia Greco per il trucco.
I produttori Valerio Melcore e Vito D’Agostino stanno vagliando richieste di repliche nel frattempo arrivate da Firenze, Roma e Milano, e si stanno adoperando per altre date in Puglia. La Dea Trans continuerà a vivere.