DOPO L’ ANTEPRIMA DEL FESTIVAL DI VENEZIA, E’ APPENA USCITO NELLE SALE DI TUTTA ITALIA IL FILM DI ALESSIO CREMONINI “Sulla mia pelle” CHE RACCONTA GLI ULTIMI GIORNI DI STEFANO CUCCHI. SIAMO ANDATI A VEDERLO
di Roberto Molle______
Visto ieri sera “Sulla mia pelle”, il film di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi e Jasmine Trinca, sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi (mella foto, un fotogramma della pellicola).
Al di là delle polemiche sorte in seguito alla decisione da parte di alcune associazioni di far vedere gratuitamente il film, perché, spiegano, tutti dovrebbero vederlo…Per i motivi che una volta guardato, ti lascia senza fiato, sgomento e smarrito di fronte al moto schizofrenico dei meccanismi che muovono gli ingranaggi della giustizia italiana.
A parlarne non credo si rischi di fare spoiler, tutti conoscono a grandi linee la vicenda di Stefano Cucchi, il film non aggiunge molto alla cronaca di quegli ultimi giorni della sua vita.
Quella foto col viso di Stefano scarnito e tumefatto che ha fatto il giro del mondo, racchiudeva già tutto l’orrore che potesse suscitare quella storia di maltrattamenti, subiti da chi lo arrestò.
Non c’è traccia, in tutto il film, di particolari scene di violenza fisica, ma quella non vista, percepita attimo dopo attimo è devastante.
Il regista omette di mostrare il massacro di Stefano da parte dei tre carabinieri, lo fa, presumibilmente, perché preferisce raccontare la storia attraverso un crescendo emotivo generato da primi piani e piani sequenza che riescono a trasmettere benissimo quel senso di incredula disperazione che cresce fotogramma dopo fotogramma.
Il film getta uno sguardo impietoso e severo su tutti gli “attori” di quel fatto di cronaca, e non fa sconti neanche al povero Stefano Cucchi, non giustifica la sua tossicodipendenza e la presunta attività di spaccio che salta fuori dal rinvenimento di una notevole quantità di hashish e cocaina nell’appartamento dove viveva da solo.
Fa l’effetto di un pugno nello stomaco vuoto il rimbalzo da parte della polizia penitenziaria nei confronti dei genitori che chiedono di poter vedere il figlio senza ottenerne la possibilità; e ancora, un altro pugno ai fianchi: l’indifferenza di agenti di polizia, di carabinieri, di personale sanitario che si accontentano della storiella di una caduta delle scale di fronte a un ragazzo con vertebre spezzate, volto tumefatto, ematomi da calci e pugni, valori del sangue fuori controllo, e il rifiuto di mangiare come protesta al diritto negato di poter parlare con il proprio avvocato.
Poi, ci sono altre cose che fanno male, e il cinema, delle volte, riesce ad andare oltre ogni occultamento della realtà percepita (successe con “Diaz” il film di Daniele Vicari sulle violenze da parte delle forze dell’ordine alla scuola di Diaz di Genova e nella caserma di Bolzaneto durante i tragici giorni del G8 del 2001).
È da quell’occultamento che riprende a raccontare la storia, in modo che, un fatto, per quanto terribile e ingiusto, non venga dimenticato. E terribile, è l’indifferenza di un giudice che non guarda in faccia o che, proprio non vuol guardare i segni evidenti di una tortura subita all’interno di una struttura che è si di detenzione, ma nella quale deve essere garantito per legge il più elementare dei diritti umani, a prescindere da ogni grado di colpevolezza: quello alla vita.
I familiari di Stefano Cucchi hanno dovuto subire la “cattiveria” di non poter più rivedere il figlio vivo, da parte di rappresentanti della macchina dello stato che si farraginosa, dispettosa, arbitraria, verso chiunque incappi nelle sue maglie: colpevole o innocente. Una sorta di pregiudiziale che, oltre ai diritti limitati, a chiunque venga a trovarsi in stato di detenzione, se ne debbano togliere altri, a discrezione di un funzionario di polizia che si è alzato con la luna storta, di un agente penitenziario che se ne lava le mani come Pilato, di un operatore sanitario zelante e presuntuoso, di personale addetto alla distribuzione del cibo schifato da un disperato rifiuto di nutrizione da parte di un inerme ragazzo di trent’anni ridotto nel giro di una settimana a larva umana.
Va visto questo film, da tutti. Perché aiuta a mettere in discussione aspetti della coscienza che spesso si danno per scontate. Non ci sono uomini buoni o cattivi… ci sono gli uomini, con i loro limiti, le loro miserie, i loro difetti, il loro orrore. E operatori delle forze dell’ordine, magistrati, carcerieri, non sono esenti da tutto ciò.
Questo è uno dei messaggi più eloquenti che il film lancia, aiutando ad aprire altri spiragli su realtà come quella raccontata (due, le più note, sono le vicende di Federico Aldrovandi e Giuseppe Uva) che, con grande probabilità, inchioderanno ancora le coscienze di tutti a interrogarsi sui metodi di controllo e sulle conseguenze delle azioni repressive usate dalle forze dell’ordine in Italia.
Due inchieste, negli anni, hanno accertato responsabilità e colpe. Ci sono stati rinvii a giudizio per omicidio preterintenzionale, abuso di autorità, falso e calunnie.
La parola fine sulla morte di Stefano Cucchi non è stata ancora scritta, e chissà, se mai lo sarà, ma ai suoi familiari spetta la verità, in particolare alla sorella Ilaria, che con determinazione la insegue nella la speranza di poter ottenere giustizia per conto di quel fratello, sicuramente difficile, ma che, certo, non meritava di morire per mano di chi aveva comunque il dovere di proteggerlo.
Category: Cultura