TOTO’, VINCENZO E QUELLO SPETTACOLO ALL’ APOLLO DEL 1950 / RICORDO INEDITO DEL GRANDE ATTORE AL MUST DI LECCE CON LA NIPOTE ELENA DE CURTIS
di Antonietta Fulvio * (giornalista – per leccecronaca.it – foto di Massimo Rapanà)______
Era di un altro pianeta, anche se dallo scorso ottobre c’è un asteroide nell’Universo che porta il suo nome. Totò. Unico e geniale. Pirotecnico come la gestualità del suo corpo snodabile di marionetta senza fili. Istrionico ed espressivo con la mimica del suo volto asimmetrico che, a distanza di cinquant’anni dalla morte, continua a farci ridere, senza freni come bambini.
A lui, il Principe della risata e quintessenza della napoletanità, è stata dedicata al Must di Lecce il 20 gennaio la serata inaugurale della quinta edizione della rassegna “LuMière calicidicinema”, ideata da Antonio Manzo, tra i primi eventi per celebrare i centoventi anni dalla nascita che ricorrono il prossimo 15 febbraio.
«È più facile far piangere che ridere e nonno, che credeva di essere solo un venditore di chiacchiere, ancora oggi invece è ricordato e amato dal suo pubblico» – ha ricordato Elena Alessandra Anticoli de Curtis, nipote di Totò, ospite d’onore dell’evento durante il quale si è voluto ricordare il passaggio a Lecce del comico napoletano e la sua compagnia teatrale con la rivista “Bada che ti mangio”, firmata insieme a Michele Gualtieri. Era il marzo 1950.
«Mio padre si recò a Brindisi personalmente per andare a prendere Totò alla stazione e accompagnarlo a Lecce mettendo a disposizione per il suo soggiorno un nostro appartamento sopra il teatro», ha raccontato Vincenzo Cappello erede della famiglia che aveva fatto costruire il Teatro Apollo. «Inizialmente erano solo due date – ha aggiunto – ma il successo fu tale che si sommarono altre due repliche. Ricordo che Totò fece fissare un chiodo sul palcoscenico e durante lo spettacolo vi si agganciava con la scarpa e faceva oscillare il suo corpo in posizioni impossibili, il pubblico andò letteralmente in visibilio, fu un vero trionfo».
A documentarlo c’è un articolo de La Gazzetta del Mezzogiorno, una copia del quale con alcune foto storiche sono state donate dallo stesso Vincenzo Cappello all’archivio de Curtis.
All’epoca, la Tipografia del Commercio di Antonio Buttazzo realizzò i manifesti pubblicitari della rivista e dal genio creativo di Antonio uscì un bellissimo manifesto gigante con la scritta “Totò” giocato sulla composizione di una gigantesca “O” ottenuta da moduli neri entro i quali trovavano posto le consonanti in rosso con al centro la vocale in nero. «Ero un bambino ma ho ben in mente in quei giorni il lavoro incessante di mio padre per stampare manifesti e locandine, allora i caratteri erano mobili e dunque sistemati manualmente» – ha raccontato Alberto Buttazzo che sessantotto anni dopo, nella storica Tipografia, oggi spazio culturale, ha coniato il cliché realizzato da suo padre tirando alcune copie di quel manifesto tra cui quello andato in dono ad Elena insieme ad un angolo di legno della matrice.
Dalle note de La mazurka di Totò e la struggente Malafemmena, suonate dal trombettista Martino Pezzolla e il chitarrista Francesco Vaglia, alla lettura de La livella recitata da monsignor Lucio Renna vescovo carmelitano ci si è addentrati con non poca emozione nell’universo Totò, fatto di ‘addore e teatro’, note, canzoni, versi sublimi – e straordinariamente attuali – come Il cimitero della civiltà (che ho avuto il privilegio di leggere) – ai quali si aggiungono i 97 film girati tra il 1937 e il 1967 visti da 300 milioni di spettatori, un record che non ha eguali nella storia del cinema italiano.
Tra queste pellicole, selezionato per la proiezione di fine serata, “Totò a colori” del regista Steno, tra i primi film italiani a colori e scelto tra “le 100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”. Una girandola di situazioni comiche con protagonista il musicista Antonio Scannagatti, passando dagli sketch di rivista come la famosa scena con l’onorevole Trombetta nel treno per Milano ispirato all’incontro che Totò ebbe con l’onorevole Giulio Andreotti tratta da “C’era una volta il mondo” (1947-48) e il numero sensazionale di Pinocchio da “Volumineide” (1942-43) dove si ammira la capacità di disarticolare il suo corpo.
Con la sua comicità Totò non perse mai occasione per deridere il potere e sbeffeggiarlo perché «il potere odia le risate, se ne sente sminuito» e con le sue poesie seppe dar voce ai sentimenti più autentici, alle riflessioni sulla vita e sulla società che stava cambiando vertiginosamente perdendo pezzi di umanità.
Ma cosa aveva Totò di diverso? A questa domanda Elena de Curtis non ha dubbi nel rispondere: «La profonda umanità unita al suo straordinario talento.»
Visibilmente emozionata in una serata in cui ha sentito forte l’affetto che il pubblico continua a tributare a suo nonno, Elena ha raccontato di quando Totò mise alle strette i suoi genitori affinché regolarizzassero la loro unione e fosse regolarmente riconosciuto. E ha ricordato la teatralità insita nel suo dna, la prima recita da scugnizzo che per i vicoli della Sanità si era strappato i pantaloni fiorati ribaltando gli sfottò degli amici in ammirazione.
Il teatro è sempre stato il suo amore anche se sua madre avrebbe preferito vederlo prete. Solo dopo la morte di Liliana, la femme fatale che perdutamente innamorata di lui si suicidò, pensò di prendere i voti ma quello di castità non faceva per lui. Totò amava la vita e non dimenticò mai da dove era partito e ciò che aveva vissuto sulla propria pelle – la fame, la povertà, le vessazioni del caporale di turno.
«Quando aveva la sua compagnia teatrale pagava sempre per primo e generosamente i suoi attori e spesso non rientrava dalle spese e doveva rimetterci del suo».
Fu generoso con chiunque gli chiedesse aiuto e fino alla fine continuò ad elargire grosse somme di denaro in favore «degli uomini e delle bestie meno fortunati».
Dagli scugnizzi del Rione Sanità ai randagi realizzando un canile che accoglieva oltre duecento “orfanelli”. Una generosità mai ostentata ma autentica. Perché «I poli di Totò sono da una parte questo suo fare da Pulcinella, da marionetta disarticolata, dall’altra c’è un uomo buono, un napoletano buono, realistico “vero”» – come ebbe a dire Pierpaolo Pasolini.
«È vero – ha confermato Elena – il nonno prima di morire pronunciò la frase “sono cattolico apostolico romano”, chiese di ritornare a Napoli, e disse di aver voluto assai bene a Franca con la quale non contrasse mai matrimonio perché in fondo Totò era convinto che a legittimare l’unione tra due persone non fosse un pezzo di carta. Anni prima, quando erano ancora insieme, come prova d’amore aveva chiesto a Diana di separarsi».
Il rapporto d’amore, la gelosia morbosa nei confronti della donna che poco più che sedicenne era diventata sua moglie, ma anche la tenerezza e la gioia di aver creato una famiglia è raccontata nel libro “Totò, mio padre” edito da Rizzoli, scritto a due mani da Liliana de Curtis e Matilde Amorosi.
«Quando mio nonno stava girando “47 morto che parla” con Silvana Pampanini, uscì fuori la notizia di una sua richiesta di matrimonio all’attrice. Fu questo pettegolezzo a far allontanare Diana (che poi sposò l’avvocato Michele Tufaroli, ma il matrimonio naufragò dopo tre anni, ndr) e fu allora che Totò scrisse Malafemmina dedicandola a lei e, anni dopo, regalò a mia nonna una casa con i soldi che aveva guadagnato con quella canzone».
Se ancora oggi il suo mito resiste e anche i giovani lo scoprono con i suoi film, c’è tutto un aspetto del Totò pensiero che va riscoperto e valorizzato. E va anche in questa direzione la riedizione del libro “La livella” con l’aggiunta di quattro inediti, annunciato dalla stessa Elena per il prossimo ottobre.
In Totò coesistevano la comicità stratosferica così simile alla Napoli chiassosa dei vicoli di giorno e la natura silenziosa del Principe, la sua dimensione notturna di pensatore assimilabile alla Napoli sotterranea che si apre sotto i decumani.
Lui il pazzariello e il Principe, icona di una città e del suo cuore più vero, seppe tradurre pensieri e paure di un’epoca di transizione che assisteva al rapido passaggio dalla fame al benessere, dalla perdita d’innocenza dei propri valori all’importazione di nuovi modelli di comportamento.
Servì il suo pubblico, fino alla fine, vestendo i panni del furfante e del nobiluomo, del maresciallo e del reduce di guerra, del monaco e della marionetta ma restando sempre fedele a se stesso e all’assioma sul quale regolò la sua vita e la sua arte: «Una lacrima è solo l’altra faccia del sorriso».
Category: Costume e società, Cronaca, Cultura, Eventi