CHAPEAU MAESTRO PIOVANI! LA SUA MUSICA “PERICOLOSA” PERCUOTE L’ANIMA, SUGELLANDO UN SONTUOSO GODIMENTO ARTISTICO
di Annibale Gagliani______
Felici di non essere esistiti per quasi due ore. Orgogliosi di non essere esistiti per quasi due ore. Per fortuna non siamo esistiti per quasi due ore.
La musica è pericolosa, diceva uno dei padri del fenomeno dei fenomeni culturali – di falsa pace – chiamato neorealismo: naturalmente Federico Fellini, e chi sennò. Espressione confermata sulla luna bionica di ieri al Nuovo Teatro Verdi brindisino: le note festosamente struggenti di Nicola Piovani ne sono il manifesto reale.
La musica di Intervista o de Il Marchese del Grillo accarezza le ferite brusche dell’anima. Fellini e Monicelli riconoscevano il talento incontaminato anche a kilometri di distanza. La musica di Non al denaro non all’amore né al cielo e di Storia di un impiegato scuoia l’anima. De André rimarrà uno dei pochi poeti novecenteschi ad aver fottuto copiosamente la censura.
Eppure, che capolavoro di incredula casualità il brano principe del secondo album citato, Il bombarolo, con quella ritmica e quella combinazione di note ispirate alle suore d’Ivrea, che suonavano le campane con solenne innocenza vicino casa di un piccoletto Nicola Piovani. Proprio le stesse medesime note sedimentate per decenni nelle sinapsi dell’artista e esplose nel meno probabile prodotto culturale, capolavoro di incredula casualità, appunto.
La musica de La vita è bella percuote l’anima e sugella un sontuoso godimento nell’ascoltatore. Oscar, Oscar, Oscar! Grosso quanto Il Colosseo, dove Piovani amava passeggiare quando probabilmente era incazzato con l’universo parallelo. Certo la premiata colonna sonora citata è un dionisiaco pugno nello stomaco che spezza perfettamente il fiato. Benigni non è mica fesso, si è fatto cucire addosso dal maestro addirittura una marcia bandistica per l’aurora dei suoi spettacoli.
E dai qui si scuarcia davanti i nostri occhi e nei nostri timpani il mondo che ha ispirato il compositore, il pianista e il direttore d’orchestra capitolino: la crudeltà inebriante delle feste patronali, dove il volgo attendeva gli echi lontani e rassicuranti della sacra banda; l’epicità teatrale della mitologia greca, vorticosa nella lettura del coraggio di Orfeo – cantore contro le sirene cannibali -, malinconica nei tormenti umani del Minotauro, ed efferata nella sensuale sete di vendetta di Salomè.
E poi cinquecento aneddoti serviti su un piatto di platino italico, come quando assieme a Vincenzo Cerami e Roberto Benigni decise di concludere Quanto t’ho amato inserendo il verso “in amore le parole non contano conta la musica” (una bella stilettata nei confronti dei super parolieri). O in quel frangente in cui si armò di pazienza millimetrica per accompagnare Marcello Mastroianni nella registrazione discografica di Caminito, pezzo angolare della musica albiceleste.
Potremmo spendere un milione di parole per descrivere l’artista Piovani e la sua musica “pericolosa”, e per riconoscere nell’uomo un’umiltà e un basso profilo fuori dal comune. Potremmo concludere semplicemente dicendo che egli non è nato in una famiglia di musicisti e iper-cultori del genere, e si è ritrovato ad essere travolto da quella deliziosa paura che ti provoca la scoperta dell’immane produzione degli Chopin, Mozart o Beethoven. Potremmo ricordare gli inizi sul carrozzone della musica di largo consumo nella sua attività di impiegato radiofonico Rai.
Potremmo, potremmo, potremmo.
L’unico moto intellettuale possibile in questo caso è dire: gracias, mercì, danke, obrigado, thanks, grazie (glielo diciamo in diverse lingue internazionali poiché ci troviamo al cospetto di un artista internazionale).
Le note del Piovani suscitano una dolorosa felicità. Le note del Piovani regalano una festosa malinconia.
Evviva, evviva, evviva gli eredi dei Verdi, Rossini e Puccini.
Nicola Piovani è di diritto tra questi.
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