GLI ULIVI DI LECCECRONACA
di Valerio Melcore______ Ogni tanto ci sforziamo di mostrare quanto di bello la nostra terra ci riserva, e che magari non riusciamo a vedere, e tanto meno a “sentire”, presi dalla fretta quotidiana che ci condiziona l’esistenza.
Per questo approfitto della pausa domenicale per andarmene a spasso per le campagne salentine.
Immerso dagli odori e dai colori primaverili, uno scatto qui uno lì. Poi una volta a casa, le foto una dopo l’altra sfilano sullo schermo del computer, e come per incanto tanti particolari, che ci erano sfuggiti si presentano ai nostri occhi.
E’ il caso del tronco di questo ulivo millenario, sembra l’opera di uno scultore che voglia raccontare la storia di questi giganti.
Alla base il tronco è privo di qualsiasi tipo di protezione non c’è ombra di corteccia, ma solo legno consunto dal tempo e dagli incendi, e piagato dalla mancanza d’acqua a cui per secoli questa terra è stata condannata.
Una struttura lignea formata da onde che si incontrano e si sovrappongono, forse per ricordarci che questa è anche terra di mare, o forse sono la rappresentazione di muscoli tesi nello sforzo e per il dolore, di tendini strappati, delle carni rinsecchite degli uomini e delle donne, che, con la sola forza delle braccia, hanno coltivato questi ulivi, mondato, protetto, anno dopo anno per millenni, una generazione dopo l’altra.
Poi, da queste piante hanno ricevuto sostentamento, all’ombra delle chiome di questi alberi i nostri nonni hanno riposato durante la calura estiva, da questi ulivi venivano tagliati i rami portati in processione la Domenica delle Palme, dalle chiome potate si otteneva il combustibile per scaldare i forni all’interno dei quali venivano cotti i fichi secchi e le “freseddhe”. Il pane quotidiano dei nostri antenati.
Ma, se continuiamo ad osservare solo con un minimo di attenzione in più, ecco che scorgiamo in basso a destra, appena appena sopra al nudo legno, la corteccia che dà vita ad una faccia arcigna, forse una bestia posta lì di guardia, a difendere quel viso, in alto, che riposa su di un braccio disteso ed avvolgente.
La bestia, un cane Corso, era uno degli animali tipici delle campagne salentine sino a poche decine di anni fa se ne potevano osservare alcuni esemplari nelle masserie del brindisino e del tarantino.
Il cane corso, della famiglia dei molossidi, chiamato così non perché proveniente dalla Corsica, come si sarebbe indotti pensare, ma perché aveva il pelo ispido. Ancora oggi i pescatori di Porto Cesareo indicano come Corsi quei granchi che hanno una ispida peluria sul corpo.
Solo un lontano parente del cane Corso di oggi che vediamo sfilare nei concorsi canini.
O forse quella bestia dall’espressione dura sta lì a rammentarci che in millenni di storia non è la prima volta che quegli alberi, la ricchezza della nostra terra, hanno subito l’attacco di uomini, venuti da lontano a depredarci dei nostri beni.
Chissà quante altre cose ci vuole raccontare questo ulivo, che io non so vedere, e chissà quante cose ci vuole insegnare e che io non so capire, e mi chiedo come commenterebbe questa scultura un critico d’arte, che so, uno Sgarbi, in fondo noi siamo semplicemente i figli di questa terra, di questa cultura contadina.
Category: Costume e società, Cronaca, Cultura, Politica, reportage, Viaggi e Turismo