UN’ ANTOLOGIA DEGLI AUTORI CHE HANNO SCRITTO DI LECCE LO LASCIA COLPEVOLMENTE FUORI / ERNESTO ALVINO FA SPALLUCCE NELLA TOMBA: “Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie”
E’ stato presentato martedì scorso il libro di Franco Ungaro “Vado a Lecce”, un’ antologia di oltre quaranta autori, salentini e non, che dagli anni Quaranta a oggi hanno raccontato la città attraverso parole, canzoni, poesie, articoli e saggi, con prefazione di Massimo Bray, edito da Kurumuny.
L’ autore, nativo di Leporano, leccese d’ adozione, già direttore dei cantieri teatrali Koreja, ha selezionato un abbondante materiale, di parecchi decenni, fino ai giorni nostri, includendo motivi e personaggi spesso discutibili. Intendiamoci, tutte le antologie sono sempre discutibili, ovvio.
Ma se fai un lavoro del genere nella fattispecie non puoi omettere un autore come Ernesto Alvino. Peggio: crediamo che sia stata un’ omissione da ignorante, senza offesa, naturalmente, nel senso di “che ignora”, “che non sa”.
Purtroppo, il che non vuol essere una giustificazione, ma una spiegazione. La formazione dell’ autore lo porta evidentemente a considerare cultura solamente quella da cui viene egli stesso, e vengono i vari Massimo Bray e Roberto Cotroneo e tutti gli altri, allineati, anche se disimpegnati.
E comunque, se fra coloro i quali hanno scritto di Lecce, metti i giovani di adesso, non puoi omettere Ernesto Alvino, per mezzo secolo animatore e protagonista del dibattito giornalistico, culturale e politico salentino.
La Cultura non ha colori, o appartenenze. La Cultura poi non permette amnesie, vuoti e lacune.
Se no, in questo modo, l’ intento dichiarato di articolare un progetto “condiviso e partecipato” fallisce miseramente.
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Anch’ egli leccese d’ adozione, Ernesto Alvino ha raccontato per decenni la sua Lecce in maniera straordinaria. Quella Lecce che lo vide fascista idealista e romantico della prima ora, del ’22, essere relegato in disparte dal regime fascista per tutto il Ventennio; salvo poi, in seguito, in quanto ‘fascista’, essere emarginato per tutto il Dopoguerra dall’ altro regime dell’ antifascismo.
Ecco perché quest’ omissione di adesso brucia ancora di più.
Intendiamoci. Se potesse commentare di persona questa cosa qua, don Ernesto farebbe spallucce, sorriderebbe candido, e poi la liquiderebbe con una delle sue proverbiali, fulminanti battute, mai cattive, però letali, capaci sempre di annichilire l’ interlocutore di turno. E andrebbe avanti, con i suoi Maestri del Novecento, passati tutti dalla redazione che si affacciava su piazza sant’ Oronzo, sulla via che adesso porta il suo nome.
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Aveva egli la penna di una insostenibile leggerezza del dire. I suoi articoli, quali che fossero gli argomenti, anche se affrontati con cipiglio, avevano sempre, comunque, la freschezza di un acquerello e la grazia di un bozzetto di pastelli.
Era facile incontrarlo poi sui viali della città, quella città descritta e raccontata in centinaia di articoli per la ‘Voce del Sud’, nel corso delle sue lunghe passeggiate solitarie, in cui si metteva in ordine le idee ed elaborava i suoi convincimenti.
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Per dirne solo una, delle cose che Ernesto Alvino scrisse sulla nostra città. Nel 1971 l’ ente provinciale per il turismo gli commissionò un lavoro divulgativo. Bene, quella che sarebbe dovuta essere una semplice guida turistica, divenne con la sua penna un saggio delle meraviglie, di scrittura stilistica, e, come ben dice la scheda della biblioteca provinciale in cui è conservato (ma se ne trovano ancora in commercio su e bay alcune copie, offerte in vendita come reliquie) un eccezionale racconto di sconfinato amore.
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Anche conservo, gelosamente, l’agile volumetto raffigurato nella fotografia. Sarebbe ora che si raccogliessero in un apposito fondo tutte le copie reperibili dei giornali che Don Ernesto fondò e diresse.