CHE TEMPO FA? E’ UN TEMPO DI (beep)
di Giuseppe Puppo______
Ho atteso invano, questo fine settimana, dopo la figuraccia dell’ ultima volta, un cenno di rettifica, una qualunque spiegazione, che so? Un minimo di doverose scuse, anche pro forma. Niente.
L’ incidente si sarebbe chiuso, penso, con buona pace di tutti. Perché può capitare a tutti di sbagliare, di esagerare, di steccare, insomma di fare una figura di (beep).
Però poi uno saggio, uno onesto, uno in buona fede, rettifica e chiede scusa.
Invece no.
Allora vuol dire che il deprecabile incidente rimane in tutta la sua gravità, allora vuol dire che c’è la convinzione e la malafede, allora bisogna esaminare in dettaglio che cosa è successo, spiegarne le ragioni della grande bruttezza.
Perché non riguarda Beppe Grillo, gli attivisti, gli elettori del M5S: riguarda tutti quanti. Per di più, investe le ragioni stesse dell’ espressione politica, dell’ arte, della satira, del comune vivere civile, della convivenza pur nel confronto delle passioni e dell’ impegno politico.
Cominciamo da Beppe Grillo, che, mi piace ricordarlo, nella sua precedente vita fu cacciato immediatamente dalla Rai, per una battuta, forte, ma garbata, e intelligentemente allusiva, sui socialisti, ai tempi di Bettino Craxi.
“Se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?”, se ne uscì una volta, parlando di un viaggio presidenziale a Pechino, con una memorabile battuta, che faceva pure ridere, fece ridere tutti, tranne Pippo Baudo che sbiancò come un lenzuolo, e il presidente della Rai, che decretò l’ ostracismo perenne per l’ irriverente e malcapitato attore comico.
L’ altro fine settimana Luciana Littizzetto, complice il suo sodale, falsamente moderato e perbenista (una maschera di cui non se ne può più) Fabio Fazio, ha definito pezzi di (beep) quelli del Movimento 5 Stelle.
Così, di brutto, aprendo una parentesi che non c’ entrava niente, nel suo siparietto bisettimanale, che le frutta ventimila euro a prestazione, senza un collegamento logico, un filo conduttore, una ragione, un motivo, un pretesto, senza niente: un’ offesa gratuita e volgare, calata nel bel mezzo del monologo satirico, a sangue freddo.
Ventimila euro a botta di soldi pubblici, giova ricordarlo, di soldi di tutti noi, per non dire dello sproposito dei settecentomila euro “guadagnati” a suo tempo col Festival di Sanremo.
Soldi ben investiti, però, non c’è che dire, stante la saggia amministrazione del patrimonio personale, in parte articolata, per esempio, nei settantuno fabbricati, per quattordici appartamenti, sei garage e un deposito di cui consta essere proprietaria, a Torino e dintorni. Alla faccia del proletariato, di cui è ritenuta l’ espressione.
Già, perché Luciana Littizzetto da anni è l’ icona di questa sinistra radical chic francamente insopportabile, come Fabio Fazio: la sinistra che prima leggeva Cesare Pavese, ma ora legge Alessandro Baricco; che prima faceva la spesa alla Coop, e adesso la fa da Oscar Farinetti; che prima metteva i risparmi alla mutua sociale e adesso fa affari con Fabrizio Palenzona: insomma, quella che prima votava per Enrico Berlinguer, e oggi vota, senza turarsi niente, per Matteo Renzi.
Artisticamente, poi, una miracolata. A parte i primi esordi genuini, che sono poi l’ unica sua cosa buona, nella riuscita satira sociale della “minchia Sabbry”, in seguito tutta una carriera gonfiata dalle raccomandazioni artistiche e dalle protezioni politiche, pompata dalla “buona stampa”, cioè dal quotidiano della Fiat.
Sono decenni che lei o chi per lei scrive una rubrica sul supplemento de “la Stampa”, ripete il sabato e la domenica successiva le stesse cose in televisione nel programma di Fabio Fazio e infine, dopo mesi, ne ricava un libro: così guadagna tre volte.
Poi dice che uno si compra gli appartamenti.
Il che, a proposito, complica la questione. Forse per questo i dirigenti della Rai non l’ hanno mandata a casa: già, quale delle quattordici che possiede?
A proposito, ho notato l’ eleganza, direi, che a torto è stata scambiata per accondiscendenza, di Roberto Fico, il presidente della commissione parlamentare di vigilanza sui servizi televisivi, l’ unica carica istituzionale che per prassi consolidata spetta all’ opposizione: avrebbe potuto fare fuoco e fiamme, e invece se n’è stato zitto.
Ma pensate solo un attimo se qualcuno andasse in televisione e dicesse: “Renzi è una (beep)”, che cosa succederebbe al poveretto e, per mesi, poi, su tutti i mass media.
Roberto Fico ha fatto benissimo.
Gli Italiani hanno capito da soli. Un conto è la satira, un altro è l’ offesa.
Poi, stando così le cose, l’ estemporanea uscita della icona radical chic, lungi dal danneggiarlo, ha fatto bene al Movimento: ne sta ricompattando gli elettori, e sta facendo interrogare ignari e indecisi, che cominciano a chiedersi che cosa sia questo M5S oggetto di insulti: forse perché è davvero l’ unica forza contro il sistema della partitocrazia, della casta, dei privilegi.
Comunque ecco, per saldare e chiudere il discorso, la satira deve far ridere, prima di tutto.
E, pur potendo precipitare a volte nei toni aspri e bassamente irriverenti, non deve mai offendere nessuno.
Non deve mai diventare un’ offesa gratuita, ecco.
Perché si comincia con gli insulti, e poi magari si finisce con le risse e le pistole. Abbiamo vissuto già negli anni Settanta, purtroppo, un simile passaggio, talmente tragico, da giurare di non volerlo rivedere mai più.
Per questo mi sarei aspettato almeno una dichiarazione pur formale, ma chiarificatrice, dai vertici Rai, solo per questa ragione, affinché il confronto politico non ricada nell’ insulto, ma si mantenga nei toni civili, pur serrati dalla passione, del confronto.
Anche per la satira.
Infine, gioverà ricordare all’ icona radical chic, visto che l’aveva capito solamente ai tempi di Silvio Berlusconi, ma adesso se n’è opportunisticamente dimenticata, che la vera satira, la sola satira degna di questo nome, è quella contro il potere: essa va esercitata contro i potenti e contro chi detiene le redini decisionali, non contro gli oppositori popolari, che il potere subiscono e, in nome del bene comune, cercano di cambiarlo e modificarlo.
Dai tempi di Nevio poeta, a quelli di Giovannino Guareschi, chi fa satira vera, la fa contro i potenti, e ne paga amaramente le conseguenze in termini personali; comunque certo non ne riceve ogni volta ventimila euro di compenso.
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