“Fino all’ alba”, RACCONTO INEDITO DI DARIO PEREZ IN ESCLUSIVA PER I NOSTRI LETTORI
di Dario Perez______
“Ogni storia da me scritta nasce dalla asfittica realtà che ci circonda. Ogni vicenda vissuta può essere dilatata, estremizzata e distorta e così la gente che, giorno dopo giorno, incontriamo, sfioriamo, viviamo può diventare il mostro che terrorizza le nostre esili esistenze.”
(Rdl______Dario Perez, nato a Mesagne, 32 anni, è laureato in lettere moderne.
Esordisce con il romanzo “Luce nel buio”, pubblicato da Icaro Editore, nel 2009.
A “Notte Fonda, raccolta di racconti horror e thriller, è la sua seconda pubblicazione, appena edita da Sillabe di Sale Editore.______
Dopo il gradimento fatto riscontrare da “Ad una cena di lavoro” del mese scorso, leccecronaca.it gli ha chiesto nuovamente in esclusiva un racconto inedito per le ‘innocenti evasioni’ estive dei nostri lettori.
Qui di seguito, quello che ci ha mandato (con un’ immagine dell’ illustratrice Adriana Tosi______
FINO ALL’ ALBA
Le ultime ore di un venerdì freddo e vuoto di Dicembre, come stanchi soldati, volgevano alla ritirata. I lampioni iniziavano ad ammiccare alle poche ombre che, stoicamente, avevano deciso di rimanere in strada combattendo il gelo. Una voce gentile e feroce indicava che mancava solo un’ora al coprifuoco. Gli altoparlanti erano presenti a ogni angolo di quella città della quale, ora, non riesco neanche più a ricordare il nome.
Ancora una volta la mia mente mi aveva portato lontano. Lontano da casa. Lontano da ciò che volevo lasciarmi alle spalle. Lontano dalla ormai fragile realtà che mi ero costruito per sfuggire a qualcosa di terribilmente indefinito.
Camminavo mentre le ultime persone in giro, come tante formiche con cappotti e sciarpe sgargianti, aumentavano le proprie andature per rincasare prima dell’inizio dell’orario imposto.
Perso nelle mie sterili elucubrazioni, ero giunto in una zona periferica di quella sconosciuta città. Poche luci a illuminare le degradate vie pullulanti di spazzatura. Strade malate. Agonizzanti.
Alzavo lo sguardo per cercare di captare qualsiasi possibile capriccio del clima e vedevo quegli enormi palazzi, pieni di finestre, molte delle quali rotte e riparate alla meglio con del nastro d’imballaggio. Finestre che, agghindate di biancheria rattrappita dal freddo, mi scrutavano curiose come se avessero intuito che non appartenevo a quei remoti e dimenticati luoghi.
Mi sentivo osservato.
Guardai l’orologio. Trentacinque minuti al coprifuoco. E non sapevo neanche, dove mi trovassi.
Dovevo tornare a casa, ma quelle ombrose viuzze mi sembravano tutte uguali e non ero in grado di orientarmi. Avrei dovuto rifare la strada a ritroso ma non riuscivo a capire da dove ero arrivato.
Una sensazione che, a dir il vero, provavo spesso. Una condizione alla quale mi ero abituato. Senso di smarrimento cronico.
Mi guardavo intorno muovendo la testa a scatti mentre la sensazione di estraneità mi entrava in circolo e mi faceva sentire a disagio.
Continuai a muovermi come mosso da un telecomando quando, avvicinandomi a un cassonetto della spazzatura, qualcosa attrasse la mia, ormai evanescente e intermittente attenzione.
E mancavano già dieci minuti al coprifuoco.
Tempus fugit. Pensai. Proprio come la mia anima peregrina e inquieta.
Adesso, oltre alla paura di non riuscire a tornare nel luogo in cui vivevo (non sono mai riuscito a chiamare casa quel posto) s’instillava in me, come un veleno, la preoccupazione per i rischi che avrei potuto correre rimanendo ancora in giro durante le ore in cui era vietato restare in strada.
Maledetto coprifuoco.
Mi chinai per raccogliere una busta bianca. Una busta per lettere. Era rigonfia come se avesse ingurgitato qualcosa. Quando me la ritrovai tra le mani, eccitazione e paura s’impossessarono di me.
Quella busta era piena di banconote da cento euro. Provai un attimo d’insensata vergogna.
Devo cercare di restituirla. Fu un pensiero incondizionato giunto dalla mia mai accettata educazione religiosa intrisa d’ipocrita “Samaritanesimo”. In realtà, la mia mente non aveva mai pensato di restituire quella busta. Avevo solo paura di essere colto in flagrante mentre m’impossessavo di qualcosa che non mi apparteneva.
Furtivamente mi guardai intorno e, colpevole, m’infilai in tasca il generoso dono di Dio.
Fu proprio in quel preciso istante che la sirena del coprifuoco rivendicò, stridula, la sua presenza. Era un suono terribile.
In giro si udivano, fusi tra di essi, il suono del vento che fischiava la sua malinconica melodia, scorrazzando tra i vicoli deserti e il rumore delle finestre che si chiudevano come a nascondersi da qualcosa o da qualcuno.
Ero solo. Mi misi a vagare in cerca di un bar, un parrucchiere, un take away.
In cerca di un posto in cui ripararmi.
Le vetrate degli esercizi, oramai, si mostravano come tanti occhi socchiusi e le persone nascoste dietro le serrande, che apparivano come palpebre metalliche, mi guardavano con timore.
Ero davvero spaventato. E solo. Dannatamente solo.
A un tratto, un rumore.
Non sapevo se provare sollievo o timore.
Il suono di un clacson.
Non ce l’hanno con me. No, non stanno suonando per attirare l’attenzione dell’unica persona in giro per questo cazzo di deserto urbano.
Continuai a tenere lo sguardo basso facendo finta di nulla.
Il rumore degli pneumatici che ingurgitavano il freddo manto stradale aumentava, ma improvvisamente cessò. L’auto aveva arrestato la sua trionfale marcia funebre.
Il cuore iniziò a battermi più forte del dovuto. Colpa? Terrore? Non capivo il mio stato d’animo perché ero spaventato, ma sentivo che c’era qualcosa che non andava.
-Giovanotto!
Con assoluta cautela, mossi il collo per guardare alla mia destra, verso la strada.
-Sì? La mia risposta non fu molto eloquente.
Spostai lo sguardo verso l’auto, una Fiat Panda che sembrava essere giunta dagli anni novanta. Nell’angusto abitacolo quattro brutti ceffi mi guardavano. Non sembravano tanto felici di vedermi. L’istinto mi mise in guardia. La puzza del pericolo pervase il mio cuore.
Come conseguenza di un macabro gioco di prestigio, uno sportello si aprì mentre il fumo fuoriuscito dalla marmitta creava un’atmosfera surreale intorno al veicolo.
Una mano, spuntata dal buio che avviluppava l’interno del mezzo, gravata del peso di un enorme bracciale d’oro, m’invitò ad accomodarmi.
Deglutii e mi sembrò di mandare giù un enorme rospo nero.
Mi appoggiai l’indice sul petto come per dire: ce l’hai con me? Stai parlando con me? Mi venne in mente la scena di Taxi Driver. Sorrisi. Inopportunamente, sorrisi.
-Vedi qualcun altro?
La voce giunse da dietro il finestrino, abbassato per metà, del conducente.
Recalcitrante, mi avvicinai al mezzo. Tremavo. E il tremolio non era una conseguenza del freddo.
Entrai in macchina. Subito, un indicibile puzzo mi colpì come un pugno alla bocca dello stomaco.
I quattro energumeni mi guardarono. Uno cercò di abbracciarmi appoggiandomi sulla spalla la mano appesantita da quell’orribile bracciale.
-Cosa ci fai in questo quartiere, ragazzo? Non hai sentito la sirena del coprifuoco?
Cercai di ricomporre i frammenti di quei pochi pensieri non ancora ammorbati dal terrore. Avrei voluto fare loro la stessa domanda, tuttavia, pensai che non mi avrebbe giovato giocare a fare il duro con quella gente.
-Mi sono perso.
Improvvisamente tutti scoppiarono a ridere. La vecchia Panda iniziò un goffo saltellio.
Abbassai lo sguardo più arrabbiato che impaurito.
-Se ti guardi nelle tasche… dovresti avere qualcosa che ci appartiene.
-Parlate di quella busta trovata vicino al cassonetto? Eccola. Prendetela pure.
Presi la busta dalla tasca e la consegnai all’omaccione che mi sedeva affianco.
Lo strano personaggio raccolse l’oggetto e, con aria distratta, ne controllò il contenuto. Dopo la veloce perizia, le banconote furono affidate all’uomo seduto al posto di guida, il quale mostrò un disgustato disinteresse.
Ci furono pochi attimi di pesante silenzio. Poi, mentre lo sportello era ancora spalancato, si udì il rumore del motore che ruggiva. L’uomo ingranò la prima. Era pronto per partire.
-Hei, un momento. Vi ho dato quello che volevate. Dove volete portarmi?
Ancora silenzio. Un silenzio che mi atterrì. Un silenzio foriero di un’imminente sventura.
Una goccia di gelido sudore mi percorse la fronte. Trattenni il respiro. Con la mano madida afferrai la maniglia, uno scatto e lo sportello si spalancò. Con un balzo mi lanciai fuori dalla vettura.
Sentii le urla degli energumeni, le confuse imprecazioni.
Iniziai a sfrecciare come una biglia lanciata da una fionda.
Gli uomini abbandonarono l’abitacolo e iniziarono a inseguirmi. La paura mi bloccava gli arti inferiori ma riuscii ugualmente a lasciare un margine di un centinaio di metri tra me e la loro malcelata follia.
Corsi senza meta fin quando non mi accorsi che ero giunto vicino a una stazione ferroviaria. La porta della sala d’attesa era stranamente spalancata.
Uno spettacolo orribile davanti alle mie orbite pulsanti: erbacce riposavano vigili e indisturbate vicino a quelle che un tempo erano state delle finestre; disegni macabri a imbruttire le mura sporcate da enormi macchie d’umidità; puzza di piscio di gatti a inebriare l’aria stantia.
Restai in quel luogo surreale e silenzioso. Potevo udire lo scalpiccio dei loro passi sul terreno gelido.
Erano vicini.
Un rumore. Stavano graffiando le vetuste mura di quel posto. Mi raggomitolai nell’angolo più buio e nascosto. Guardai l’entrata e scorsi delle luci rosse. Piccole luci rosse che brillavano come delle spie di pericolo. Erano gli occhi di quegli uomini. Solo che ora non erano più degli esseri umani. Grugniti disumani entravano prepotenti dalle fessure di quell’enorme stabilimento. Ero terrorizzato. Immobile, aspettai il lento e sadico scorrere dei minuti. Erano fuori; fermi nel buio come se aspettassero che io uscissi. Non entravano ed io naturalmente non sarei uscito. Mentre ero fermo su quelle sporche mattonelle, iniziai ad avvertire una sensazione strana. Curiosità. Malsana curiosità. Come le esili braccia verdi delle selvagge piante rampicanti presenti in quel posto, cercai di inerpicarmi per raggiungere la lercia finestra e capire cosa stava accadendo nel mondo là fuori. Quello in cui avrei dovuto essere io.
Quando raggiunsi il pertugio, rischiai di cadere a causa dell’improvviso stupore. Per lo spavento.
Ce n’erano a decine! E non erano uomini.
Lo spettacolo che mi si parò davanti agli occhi fu di un indicibile orrore.
Tante bestie con enormi e gialle fauci restavano ferme in attesa di qualcosa. In attesa di qualcuno: me.
Erano immondi e, cosa ancora più spaventosa, erano in tanti. Con le zampe anteriori appoggiate sul terreno, rimanevano inerti ad annusare l’aria fredda. I loro respiri sembravano rantoli e dalle bocche aperte colava una bava fumante. Sembravano degli uomini lupo, ma avevano il muso simile a quello di un maiale. Erano delle creature strane. Mi sembrava tutto così incredibile.
E se il coprifuoco fosse stato istituito per nascondere queste aberrazioni? No… non posso credere che il governo della città… Il pensiero andò a morire nell’angolo più nascosto della mia testa. Allo stesso modo, anche le mie speranze di uscire vivo da quella situazione, si stavano spegnendo.
Uno di loro si voltò di scatto; guardava la finestra dalla quale, muto, spiavo quel macabro spettacolo.
Occhi grandi e rossi, la bocca spalancata a mostrare denti lunghi e affilati, il pelo scuro e irsuto che riverberava alla luce della luna.
Sul suo viso bestiale scorsi un ghigno. Si stavano prendendo gioco di me. Giocavano al gatto e il topo. Ed io non ero il gatto.
Mi ritrassi immediatamente. Guardai l’orologio. Erano trascorse già tre ore e non mi ero proprio accorto del rapido scorrere dei minuti. Cercai di tranquillizzarmi. Qualcosa mi diceva che quegli esseri sarebbero scomparsi con la luce del sole.
Aspettai l’alba. Credo che in più di un’occasione mi addormentai. Non chiedetemi come abbia fatto a dormire in una situazione così critica, non saprei spiegarlo. Ancora oggi stento a credere che mi sia assopito come se nulla fosse. Ricordo anche che sognai. Sì, feci sogni confusi e agitati. Ricordo che sognai di essere catturato da quelle creature, ma non mi restano che delle sfocate reminiscenze di quelle oniriche immagini. Però… ora capisco…
Ridestatomi all’improvviso, guardai l’orologio, fu un gesto impulsivo. Un quarto alle sette. Timido, il sole cercava di assestare gli ultimi mortali colpi alle tenebre portate dalla notte.
Un raggio sporco mi accarezzò il viso.
Corsi alla finestra. Un’ondata di gioia colpì il mio cuore. Là fuori non c’era più nessuno. Quelle creature erano scomparse.
Che cosa credevate? Volevate giocare con me? Farmi morire di paura? Non sapevate con chi avevate a che fare! Pensai ringalluzzito dalla consapevolezza di essere sfuggito a qualcosa di molto pericoloso.
Con assoluta cautela cercai di guadagnare l’uscita. Sembravo essere uscito da un incontro di lotta. Eppure sono rimasto nascosto per tutto il tempo. Pensai.
All’epoca non potevo capire!
Quando mi ritrovai fuori dalla sala d’aspetto, l’aria fresca mi riempì i polmoni ammorbati dalla puzza emanata dalle pareti decedute. Il sole mi fece socchiudere gli occhi… fu proprio in quel momento…
Ueeeeeeeoooo ueeeeoooooooo ueeeeeoooooo!
Scusate… è il suono della sirena del coprifuoco.
Non posso più proseguire la mia storia.
Mi aspetta un’altra serata di caccia.
Un’altra serata di dannazione eterna.
FINE
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