DOPO LA PRIMA NAZIONALE DELLO SPETTACOLO TEATRALE “PA” DI ALFREDO TRAVERSA / “Questo Pasolini pasolineggia un po’ troppo”
di Giuseppe Puppo______ (foto di scena di Daniele Soldino, per gentile concessione dell’ organizzazione: le foto dello spettacolo saranno esposte in un’ apposita mostra presso la Fondazione Pasolini a Casarsa del Friuli)______
Dopo aver assistito alla rappresentazione, aver sentito i primi commenti a caldo, subito, al termine dello spettacolo, fra il pubblico, di cui facevo parte, in compagnia del collega Alessandro Salvatore, della “Gazzetta del Mezzogiorno”, giornalista di vecchia – quindi nobile e completa – scuola, e aver letto poi, oggi, le prime reazioni trovate sui social, soprattutto dopo una doverosa, lunga e intensa pausa, ho voglia di condividere quelle che sono state le mie riflessioni al riguardo, elaborate con il dovuto distacco. Tanto più che di distacco, per quanto mi riguarda, ce n’è stato fin troppo.
Si tratta poi da parte mia di mettere qualche puntino sulle u. E anche di levarmi qualche sassolino dalle scarpe: per un cammino più agevole, almeno me lo auguro, verso le tappe successive, attese e anzi già sollecitate da autorevoli esponenti di fondazioni e circoli, commissioni e tavole rotonde e quadrate di tutta Italia, oppure, per quanto mi riguarda, per fermarmi agevolmente qui.
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L’ avevo fatto presente, l’ avevo anzi chiaramente chiesto, che quelle diciture fossero cambiate, dai manifesti e dalle locandine.
Non “da un idea”, oppure “da un progetto”, come è stato riportato: bensì “dal testo teatrale ‘Sono abbastanza grande per diventarti amico’ di Giuseppe Puppo”, ecco sì, questo, esattamente questo. Invece, a parte qualche vaga rassicurazione, niente, tutto è rimasto così.
Come è stato regolarmente inteso e frainteso, vista la confusione della formula originaria di presentazione, la sua sostanziale ambiguità di fondo, il mio ruolo è uscito pertanto sminuito, relegato a quello di testimone più o meno nostalgico della conversazione al liceo “Palmieri” di Lecce del 1975.
Io non ho avuto un’ idea. Io non ho fatto un progetto. Io ho scritto un testo teatrale, un intero copione, affidato ad Alfredo Traversa, con il quale, a parte lunghe chiacchierate in più occasioni sull’ universo mondo pasoliniano, ho avuto un solo confronto operativo di un paio di ore, destinato alla parte finale proprio della conversazione, mesi fa, e poi più niente.
Durante le settimane di prove che hanno preceduto la messa in scena, io ho assistito parzialmente una sola volta e non ho potuto, se non parzialmente, esporre le mie sensazioni, lasciate là, senza costrutto, per di più, senza aver potuto elaborare in seguito tutto quello che nel frattempo, da ieri sera, ho elaborato, una volta visto lo spettacolo: che, a questo punto, stando così le cose, è lo spettacolo di Alfredo Traversa, che ha fatto le sue scritture, le sue integrazioni, le sue omissioni, il suo adattamento, la regia e pure ne è stato uno degli interpreti.
E pure è pure l’ idea, il progetto, di Alfredo Traversa.
Del mio copione, è rimasto una parte abbondante, ma non esaustiva, dell’ incontro Pasolini – Pound; e, pressoché completa, la scena del dialogo Pasolini – Callas.
Però nessuno o quasi ha recepito che queste parti le ho scritte io.
Come se fossero piovute dal cielo, e non fosse stato frutto delle mie intuizioni dare un senso allo storico episodio dell’ intervista di Pasolini a Pound del 1967.
Intendiamoci: i due nell’ occasione non si dissero quelle cose che ci sono nello spettacolo; quello che si dissero veramente sta nel documentario televisivo, ancora oggi agevolmente rintracciabile; nel mio copione, ci sta quello che non si dissero quella sera, ma su cui si ritrovarono; le tematiche su cui si incontrarono; gli effetti positivi che l’ esperienza produsse in seguito su entrambi.
Certo, nel copione di Alfredo Traversa il grosso è rimasto. Ed è quello che ho scritto io. Ma non viene ricostruito il contesto storico, si perdono le ripercussioni personali, viene omessa la rilevanza culturale delle due figure, data per scontata.
Chi sa ancora oggi, per esempio, che se abbiamo avuto nel panorama della letteratura mondiale figure come Yeats, Joyce, o Hemingway, ma potrei continuare a lungo, lo dobbiamo a Ezra Pound?
Chi sa che della poesia contemporanea egli è “il miglior fabbro”?
Chi sa che con le sue intuizioni meta politiche egli anticipò le degenerazioni dell’ economa speculativa, le bolle finanziarie, il sistema dell’ usura dell’ euro?
Che le parole da pochi mesi finalmente pronunciate da un Pontefice, Papa Francesco, al di là delle finora tutte teoriche condanne della guerra, contro i mercanti di armi, sono le parole che Ezra Pound per primo diffuse negli anni Trenta?
E che mercanti di armi sono quelli che pure le armi le acquistano, i politici camerieri dei trafficanti e dei banchieri, tanto per fare i giusti collegamenti, come i nostri ultimi ministri della difesa, Mario Mauro e Roberta Pinotti, che hanno sperperato miliardi di euro per gli F35, questi aerei di morte e distruzione, che funzionano pure male, e che a noi non servono a niente, mentre i governi passati e presenti dicono di non avere i soldi per le pensioni minime, per i disoccupati, per gli invalidi?
Se manteniamo l’ accenno al razzismo italiano che genererà mostri politici fatto da Pasolini e ogni riferimento alla Lega è chiaramente voluto; se mettiamo la polemica pure con casa Pound, tanto per non farci mancare nulla, allora abbiamo il coraggio di mantenere il taglio polemico in primo luogo contro chi il potere adesso detiene, come nel mio copione originario veniva spiegato.
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Visto che da questa avventura, sia ben chiaro, io non ho ricevuto compenso materiale alcuno, anzi, come al solito, a livello pratico e materiale ci ho rimesso, mi sarei aspettato di averne almeno qualche soddisfazione ideale, qualche riconoscimento intellettuale. E invece…
Poi, quel distacco, quella sensazione di alienazione che è subentrata in me, ecco da dove viene.
Nemmeno il dialogo Pasolini – Callas nel mio copione – e pure nel copione di Alfredo Traversa, che lo riprende quasi integralmente – avvenne mai così come è nello spettacolo. Ma è tutto vero. E’ tutto vero perché io l’ ho scritto sulla base di citazioni, riferimenti, fatti, motivi e personaggi autentici, realmente accaduti, inediti almeno per l’ Italia, da me scoperti, verificati uno per uno e adoperati per la mia scrittura.
Ma quel che è davvero importante, del senso del mio copione è rimasto ben poco: era esso un’ altra cosa, insomma.
Il mio spettacolo – sì, è vero, su Pasolini – voleva far conoscere aspetti inediti, divulgarli, sottolinearne l’ attualità, e, come dicono quelli che parlano bene l’ italiano, last but non least, fare teatro di poesia.
Lo spettacolo di Alfredo Traversa è un’altra cosa. E’ uno spettacolo di Pasolini, che rivive a modo suo. E’ uno spettacolo che si muove appunto su logiche spettacolari, attento in primis ai risvolti icastici, e che ideologicamente si fonda sui concetti di purezza, purezza presunta e peccato, peccato negato, oltre che di martirio.
Questo mette in risalto, per mettere in secondo piano la polemica, la lucida profezia, e la poesia.
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Fra i tanti meriti di Pier Paolo Pasolini, sul versante della cinematografia, c’è quello di essere stato il primo e ultimo regista a volere il grande Totò, regolarmente relegato in film di bassa fattura, quasi tutti dozzinali, al ruolo di macchietta, in un film d’ autore. Fu un’ occasione più unica che rara, che produsse un risultato a mio modo di intendere mediocre. Comunque vissuto malissimo dall’ attore, che accanto a Ninetto Davoli, nella pellicola apologo tutto sommato, sempre a mio modo di intendere, noioso, non sta né come un uccellaccio, né come un uccellino, bensì come un pesce fuor d’ acqua. Già l’ approccio fra i due fu disastroso. Quanto il regista andò a casa sua a proporgli la parte, che poi pure accettò, Totò lo guardo per tutto il tempo con una faccia che questa era sì tutto un film, e quando se ne andò, passò una buona mezz’ ora a girare per le stanze spruzzando bombolette di deodorante e insetticida.
Poi iniziarono le riprese, che per Totò, abituato a improvvisare, costretto invece ad attenersi alle ferree indicazioni comportamentali pretese da Pasolini, e a una sceneggiatura rigida e pesante, furono una specie di calvario.
Un giorno non ne potette più e sbottò stentoreo: “Questo Pasolini, pasolineggia un po’ troppo. Siamo arrivati a metà del film e non ho ancora capito che razza di film stiamo facendo”.
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Pure questo Pasolini di Alfredo Traversa pasolineggia un po’ troppo. Nel senso che insiste su aspetti teorici, pittorici, scenografici, a scapito di ben più dirompenti contenuti, popolari veramente, di provocazione, di attualizzazione, di approfondimento e di documentazione, che erano nel mio testo originario.
Ora, io capisco, intendiamoci bene, che spettacolo ha fatto Alfredo Traversa. Lo capisco e – lo dico in maniera chiara e netta – lo apprezzo.
Voglio essere preciso, affinché non sorgano equivoci, lo dico e lo ripeto: è bello, tout court, quel che ha fatto Alfredo Traversa.
Oh lo capisco, eh?!? Ho capito tutto, o quasi.
Capisco che tante scene del suo “Pa” sono dei quadri, così come tante scene del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini sono rimandi ai classici della pittura.
Non sono mica tutto sommato culturalmente grezzo come la Callas, la quale, dovendo accettare la proposta di Pasolini di interpretare “Medea”, e non conoscendo nulla dell’ intellettuale italiano, andò a vedere “Teorema” che in quel momento era in programmazione a Parigi, salvo poi abbandonare la sala a metà del film, scandalizzata per quella che riteneva una schifezza opera di un pazzo, e, tornata a casa e non riuscendo a pigliar sonno per il disgusto, alle tre di notte telefonò ad un suo amico intellettuale, per esternargli il tutto il suo ribrezzo, no. Io capisco che certe rappresentazioni di “Pa” di Alfredo Traversa non devono scandalizzare, perché sono un apologo e devono essere viste dal punto di vista simbolico.
Però, che non sono il mio Pasolini, non sono quello che di Pasolini io apprezzo, quello che su di lui avevo scritto, posso dirlo, e l’ ho detto.
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Ho pure altri rilievi da esporre.
La colonna sonora per me è sbagliata. Salvo solo “Bandiera gialla”, inno generazionale doverosamente mantenuto.
Al posto di “Canzone di maggio” sfasata di cinque anni, io avrei messo la contemporanea ai fatti di Valle Giulia evocati “Dio è morto” dei Nomadi.
Poi, “La cura” di Battiato nella scena Pasolini – Callas non c’ azzecca proprio.
Il dialogo – litigio fra i due va introdotta da “La musica è finita” e chiusa da “Domani è un altro giorno” entrambe cantate da Ornella Vanoni.
Qualcuno potrebbe pensare a un mio capriccio. Non è così. Molti rimandi delle parole dei due sono rimandi da queste canzoni.
E poi, se di capriccio vogliamo parlare, ebbene sì, allora è un capriccio, lo so io che l’ ho scritto quel dialogo il perché va aperto e chiuso da questi brani, così come so da dove vengono tante frasi, quelle rimaste, come “Amare vuol dire far star bene una persona”, e altre che invece sono state inopinatamente eliminate.
Comunque, capricci a parte, la colonna sonora andrebbe tutta quanta contestualizzata, in piena rispondenza all’ aspetto romantico-evocativo della musica, della musica leggera, le canzoni, insomma, che fra l’ altro Pasolini amava incondizionatamente, come amava tutto quello che era popolare. Come avevo fatto io: che so? si parla di guerra del Vietnam, e allora ci andava “C’ era un ragazzo che come me…” incisa in italiano da Joan Baez nel 1967, l’ anno fatidico dell’ intervista televisiva, appunto. E la scena del “Palmieri” di Lecce va accompagnata da “Rimmel” di Francesco de Gregori, del 1975, l’ altro anno fatale, più appunto ancora.
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Poi, c’è una certa velocità, un non so che di fretta, un sottofondo di sbrigarsi, di non insistere, di liquidare quasi, quanto si rappresenta. O almeno così a me è sembrato.
Potrebbe essere un’ impressione mia.
Anche qui voglio essere chiaro: non ce l’ ho con gli attori. Gli attori, lo capisco, lo posso affermare senza tema di essere smentito, sono bravissimi. Fra l’ altro sopportano un peso difficile e improbo, tutti quanti, Tiziana Risolo, Marina Lupo, Maurizio Ciccolella, lo stesso Alfredo Traversa, specie quando sono chiamati a recitare come se fossero battute colloquiali veri e propri testi poetici, o accademici.
Potrebbe essere un’ impressione mia, comunque, poi, a mio avviso, lo spettacolo dura poco. Un’ ora e dieci sono decisamente pochi.
Ho letto negli occhi dei presenti, alla fine, una specie di delusione, del tipo, ma come, è già finito?
A proposito di spettatori. Questo spettacolo non deve aspettare che gli spettatori vengano da lui; questo spettacolo, di nicchia, di elite, di profonda bellezza per chi ama la cultura, la fatica della ricerca, lo pena spesso della riflessione, la poesia, tutte merci divenute rare, gli spettatori deve andarseli a cercare, con opportune azioni di organizzazione e di promozione.
Ma qui mi fermo, perché non mi piace parlare di quel che non mi compete.
Ecco, della poesia, posso parlare.
Far sentire la poesia, nella fattispecie la poesia pasoliniana, ampiamente misconosciuta, mai rappresentata, era una delle ragioni fondanti del mio copione originario.
Ne è rimasta solo l’ unica più famosa, “Vi odio cari studenti”.
Perché sono scomparsi i versi che Pier Paolo Pasolini scrisse in morte del fratello Guido ammazzato dai partigiani?
E pure la bellissima “Il pianto dell’ escavatrice”, con quella luce del futuro che non cessa un solo istante di ferirci?
O l’ ultima, dedicata a un giovane fascista, “Difendi, conserva, prega”… Perché c’ erano e non ci sono più?
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Un’ ultima considerazione finale, che va saldata a quei sensi di distacco, di abbandono, a quella carenza di informazione e di apprendimento, di cui ho parlato.
Pier Paolo Pasolini, quando rappresentavano i suoi spettacoli teatrali, un po’ perché era costume del tempo, come ai cineforum, far seguire il dibattito, molto perché era sua precisa voglia, di confronto, alla fine, dopo che si era chiuso il sipario, apriva la discussione con gli spettatori. Sollecitava le loro impressioni, ascoltava i loro giudizi, rispondeva alle loro domande.
Ecco, non devo aggiungere altro, e forse il dibattito lo abbiamo già aperto.
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