SE UNA MATTINA D’ESTATE UN VIAGGIATORE

| 17 Giugno 2014 | 0 Comments

Viaggiando ci si moltiplica, ci si apre a nuove vite; a volte, si recuperano pure quelle perse; e ci sono poi tanti modi di viaggiare.

Nello spazio, Chiaromonte adesso si raggiunge più o meno facilmente, da quando, dalla costa jonica, fu aperta una nuova strada statale, che porta, come nel film di Rocco Papaleo, all’altra costa, quella tirrenica, più sopra di Maratea, già nel golfo di Sapri, evitando i fitti tornanti che in macchina provocavano effetti dirompenti per i viaggiatori e accentuavano l’isolamento dei luoghi, con effetti altrettanto dirompenti per gli abitanti abituali.

Adesso, più o meno a metà di questa nuova strada, che attraversa un panorama vagamente marziano, di colli brulli e solitari in monotona sequenza, il panorama cambia di colpo: prima l’acqua azzurra e chiara di una grande diga ravviva la vista e rinfresca l’animo; poi, toccando come per mano il letto del fiume Sinni, costeggiandolo con precisione, dal fondovalle ci si ritrova dominati dai monti alti e fieri del massiccio del Pollino, da cui comincia il parco nazionale ricco di meraviglie della natura, dalla flora, alla fauna, dalla gastronomia, agli insediamenti umani.

 

Da questo punto, rimangono pochi chilometri in salita, per arrampicarsi, portati da una stradina di curve e contro – curve, fino alla sommità del colle, per entrare nel paese, che a diversi livelli, dall’alto, domina la valle del fiume Sinni, da un lato, e dall’altro, quella del suo affluente “impetuoso” come dice il nome, Serapotamo, per quanto, chissà se per effetto degli sconvolgimenti naturali, o di quelli umani, di acqua in entrambi ne sia rimasta ben poca.

 

In quei pochi chilometri in salita, grandi ginestre selvatiche impazzite di luce colorano di giallo la vista e si imprimono nella mente in maniera tale da offuscare la percezione e fa scivolare rapidamente in un’altra dimensione.

Se un mattino d’estate un viaggiatore viene dal caldo del mare e dall’afa della pianura, da lì cambia totalmente la percezione: lascia quella abituale, fatta di itinerari conosciuti ed entra in una nuova, ancora ampiamente sconosciuta, ai luoghi comuni del quotidiano tran – tran, come alle rotte risapute delle ferie e dei fine – settimana.

In due ore, poco più, poco meno, si ritrova in mondi lontanissimi, tutti da esplorare, con una serie impressionante di piacevoli sorprese.

Dal Salento, e dal Cilento, due regioni “baciate” dal turismo, raggiungerle è facile, quanto opportuno per tutti. 

***

La calma, il silenzio, i toni dimessi e rarefatti dominano incontrastati, sull’unica strada percorribile dalle auto che porta al paese, e poi lo lascia, spezzata a metà dalla piazza della chiesa.

Pure il semaforo, l’unico, bellissimo, perché non è per il traffico che alterna il rosso e il verde, ma è per le dimensioni della strada, che consente il passaggio e pure a fatica  ad una sola auto, è calmo, silenzioso, dimesso e rarefatto.

All’hotel Ricciardi non vi accoglie un albergatore estraneo, ma un uomo che non vi dà soltanto le chiavi della camera, ma pure quelle della memoria e quelle del cuore, imparerete subito a riconoscere come un amico, fra un piatto di “rascatielli” improvvisati, quanto deliziosi, e un’ informazione su tragitti e opportunità del posto.

Poi, solo a piedi, scoprirete le altre stradine, a gradoni, che passano fra le case delle famiglie ancora rimaste in alto.

Molte sono quelle visibilmente vuote e tanti i cartelli “vendesi” abbandonati come le abitazioni.

Le nuove costruzioni, l’ospedale, la caserma dei Carabinieri, la posta, altri uffici e negozi, stanno più in giù.

In piazza, passano i cani e i gatti, indifferenti alle ore che segnano le campane della chiesa.

Sui tavolini del bar ci sono le carte napoletane.

Gli anziani cercano argomenti di conversazione, come a far nitida eco ai proverbi dialettali scritti sulle pareti delle stradine, alla loro cultura contadina, in via di estinzione, e si guardano nei volti, dove, nelle rughe che li segnano, portano incise le sofferenze dei secoli.

***  

Ma per quanto non abbiano patito la fame, per quanto siano state risparmiati loro i racconti e i ricordi delle due guerre storiche, anche perché ne affrontano una quotidiana, durissima, in un mondo che  non li vuole più, per tutta quanta la loro esistenza, in loco, a Chiaromonte i veri eroi sono i giovani che sono rimasti, e quelli che dopo gli studi hanno scelto di ritornare e di rimanere qui.

Hanno tutto contro: la crisi che c’è ovunque; le opportunità da inventarsi, fra un  precariato parcellizzato sul territorio non solo sul piano lavorativo, ma in maniera uniforme a ogni dimensione; l’isolamento, per quanto attutito negli effetti devastanti dall’avvento delle nuove tecnologie; gli effetti letali dell’egoismo, della globalizzazione, dell’omologazione che hanno ricevuto come viatico per il futuro.

Li ho guardati bene, nel loro abbigliamento informale, nelle barbe a pizzetto, o nel trucco leggero, negli occhiali che sono l’unico tocco un po’ sopra le righe: ho visto volti puliti dalla rassegnazione; ho colto gesti scevri dalla monotonia; ho ascoltato discorsi in cui il rimprovero non era mai rancore.

Divertito, ho ascoltato con piacere i resoconti delle elezioni amministrative di pochi giorni or sono, in cui ha prevalso una lista civica che ha interpretato da par suo la “rottamazione” renziana, e pure la “rivoluzione” grillina e che, senza tante storie, né partitiche, né di altro genere, ha portato a diventare sindaco e assessori tutti quanti giovani, una specie di svolta o rivolta  generazionale: avevano appena fatto affiggere i manifesti per ringraziare della maggioranza avuta, con i loro nomi di battesimo.

Mi ha rattristato soltanto aver visto in tre giorni soltanto tre bambini in tutto.

***

Ci sono tanti altri modi di viaggiare, per esempio nella cultura.

Andando a Chiaromonte, si trova un paese chiamato Valsinni, la patria di una poetessa “storica” e pur importante nella nostra letteratura, che però soltanto in tempi recenti, a cominciare da Benedetto Croce, è stata “scoperta”, per quanto rimanga oggetto di culto da parti di ancora troppo pochi estimatori, per di più come “gelosi” del fatto di conoscerla e quasi venerarla.

Io fra questi e come questi, a tal punto che non ve ne dirò il nome, demandando alle eventuali singole sensibilità di scoprirla e restarne inevitabilmente affascinati, quasi folgorati dalla straordinaria rispondenza fra la vicenda umana e la resa artistica.

Qui vicino, poi, a Sapri, della spigolatrice non c’è più memoria nelle menti dei bambini delle scuole elementari.

E Cristo è rimasto sempre fermo a Eboli.

*** 

Ma proprio a Chiaromonte rimane un piccolo, ma significativo, quanto imperituro  frammento della cultura nazionale e internazionale, ancora oggi di rilevante interesse, nella sua singolarità.

Adesso ve lo racconto.

Nei primi anni Cinquanta, la vita del piccolo (ma allora più popolato) paese venne sconvolta dall’arrivo di un eccentrico studioso di nazionalità americana.

Il professore, come presero ben presto a chiamarlo tutti, prese ad analizzare dal vivo e in diretta, nelle case e nei campi, la vita quotidiana, semplice e povera, come era semplice e povera la vita quotidiana dei contadini meridionali ancora a metà del secolo scorso: li interrogava su usi e costumi, li seguiva a tavola e al lavoro, ne condivideva tempi e modi, mentre magari sua moglie, d’origini italiane, immortalava le scene in qualche foto d’epoca.

Dopo l’iniziale sorpresa, i Chiaromontesi finirono con l’abituarsi a quelle presenze estranee, ma non ostili, anzi si affezionarono loro, per quanto poi, dopo mesi e mesi, sia pur con qualche intervallo di tempo, le videro scomparire con la stessa rapidità con cui erano comparse, e ritornarono al solito profondissimo isolamento della loro geografia dell’anima, prima ancora che del luogo.

Qualche anno dopo la comunità scientifica mondiale fu sconvolta dall’uscita di un saggio accademico che, attualizzando la così detta questione meridionale d’Italia, formulava una spiegazione forte ed esaustiva dell’atavica condizione di arretratezza economica.

 

Nel 1958 uscì prima negli Stati Uniti d’America, poi in Europa, “The moral basis of a backward society”, un trattato di sociologia che individua appunto nelle basi morali la condizione di società arretrata; in Italia sarà pubblicato con questo titolo nel 1976 dalla casa editrice Il Mulino di Bologna e diventerà uno dei testi fondamentali non soltanto della sociologia, ma dell’intera storia d’Italia.

Quel libro ha nuociuto al Sud d’Italia più di una battaglia perduta.

L’autore, Edward Banfield, che, come avrete capito, amici cari, era quell’eccentrico professore americano turista non per caso a Chiaromonte, da lui nel libro trasfigurato nel centro di “Montegrano”, sostiene che l’arretratezza economica discende da una distorta visione comune del bene e del male, applicata soltanto in ambito famigliare, per cui viene sentito solamente l’ambito della famiglia e non quello della comunità, l’interesse singolo e non quello collettivo.

Insomma: nel Sud ci si muoverebbe solo per interesse proprio e della propria famiglia, per vantaggi materiali diretti e non per idealità, o solidarietà, e ciò spiega e determina l’ arretratezza sociale ed economica del Mezzogiorno d’Italia.

Mancherebbe poi del tutto la concezione del “pubblico”, latiterebbe il senso civico, il rispetto della legge e del potere, proprio nella concezione sua stessa comunemente intesa.

Infine: ognuno pensa soltanto al proprio interesse e se ne frega degli altri.

Qualcosa di ancor più radicale della bonaria e ironica formuletta “Tengo famiglia” inventata per dipingere l’italico costume.

A rileggerlo oggi, il saggio si rivela ancora godibile, ma irrimediabilmente datato e comunque fuorviante nella sua supposta e supponente specificità.

Se, infatti, i comportamenti descritti dal professore americano sono veri, o verosimili,  essi non servono a spigare la così detta “questione meridionale”, ben più complessa e articolata, nelle sue fasi storiche, e per di più contraddittoria: inquadrano invece una parziale verità, ma di ambito generale, legata alla mentalità tipica degli Italiani; sorpassata, poi, nel senso non di cancellata, ma sicuramente attenuata, dal desiderio di critica e di partecipazione che soprattutto negli ultimi anni, specie per l’affermazione dei nuovi mass media, si è ripetutamente e ben ampiamente manifestata.

*** 

Si viaggia dunque anche nel passato, là dove stanno le nostre radici, che ci hanno fatto crescere in un determinato modo e in un determinato modo ci hanno alimentato.

Da qui parte sempre la ricerca di come siamo, di come siamo stati, di come siamo diventati e, in buona parte e in ultima analisi, di come saremo.

Questo vale per la nostra storia pubblica e al tempo stesso e ancor di più per la nostra storia privata. La storia siamo noi.

Per quanto mi riguarda personalmente, il mio viaggio a Charomonte è stato un viaggio nel passato, alla ricerca di buona parte della mia storia, di quello che avevo, che avevo peso e che adesso ho ritrovato.

Ma non c’è bisogno di scomodare Gramsci, oppure Freud, e nemmeno Proust, per capirlo.

Basta lasciarsi andare alla ricerca del tempo perduto, per cambiarlo in tempo ritrovato.

La mia educazione sentimentale è avvenuta negli anni Sessanta prima, e negli anni Settanta poi, quando si diceva che il “personale” è “politico” e io mi ci sono sempre attenuto.

Ma gli esiti di questa mia ricerca – mi sia consentito – voglio tenerli custoditi e segreti nell’ intimo profondo della mia coscienza e del mio cuore.

Giuseppe Puppo

 

 

 

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Category: Costume e società

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