LE BR E IL LINGUAGGIO DELLA SINISTRA. PRIMA FASCISTE, POI SEDICENTI E FANTOMATICHE INFINE COMPAGNI CHE SBAGLIANO.
Il caso Feltrinelli rivelò che la borghesia rossa era anche cieca e sorda. Si rifiutò di accettare persino la rivendicazione di Potere operaio. Il giornale dei Potop uscì con un titolo di prima pagina che diceva: Un rivoluzionario è caduto. Nel necrologio si leggeva che l’editore aveva dato la vita «nella guerra di liberazione dallo sfruttamento». Sette anni dopo, nel corso del processo Gap-Feltrinelli-Brigate rosse, in un documento letto in aula prima della sentenza, i brigatisti imputati rivelarono che cosa fosse accaduto all’editore: «Il compagno Osvaldo era impegnato in un’azione di sabotaggio ai tralicci dell’alta tensione. Voleva provocare un black-out in una vasta zona di Milano, per garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi». Il comunicato proseguiva così: «Ma il compagno Osvaldo aveva commesso un errore tecnico. Era la scelta e l’utilizzo di orologi dalla bassa affidabilità se trasformati in timer. In questo modo aveva sottovalutato gli inconvenienti di sicurezza. Determinando l’incidente mortale e il conseguente fallimento di tutta l’operazione».
La borghesia rossa non tenne conto neppure delle spiegazioni fornite dai brigatisti. Nel frattempo continuava a dare la caccia ai fantasmi. Seguendo un percorso che nessuno aveva deciso, ma in grado di condurre migliaia di persone allo stesso punto d’arrivo: le Brigate rosse non esistevano. Il guaio è che si trattava quasi sempre di eccellenze in grado di fare opinione nei loro ambienti: docenti universitari, scrittori famosi, politici, intellettuali e naturalmente giornalisti.
L’esistenza di questo fronte negazionista l’avevo già constatato nell’aprile 1974 durante il sequestro del sostituto procuratore Mario Sossi, rapito a Genova dalle Brigate rosse e tenuto in ostaggio per un mese. Era il primo sequestro di lunga durata attuato dai brigatisti e in seguito apparve la prova generale del rapimento di Aldo Moro.
In quell’epoca lavoravo per il Corriere della Sera guidato da Piero Ottone e venni mandato a Genova per raccontare gli sviluppi del sequestro. Rimasi sul posto per più di un mese e mi resi conto di come si muoveva la borghesia di sinistra. Non voleva accettare la verità, ossia che si trattava di un’operazione di puro terrorismo rosso. Diretta a obbligare lo Stato, rappresentato dalla magistratura genovese, a rimettere in libertà un gruppo ribelle che avevo descritto tre anni prima sulla Stampa, chiamandoli i tupamaros di Genova.
Quella mia inchiesta non era piaciuta per niente al Pci e mi aveva meritato i rimproveri dell’ Unità. Il giornale comunista sosteneva che non si trattava di una banda politica, ma soltanto di criminali comuni. E non contava nulla che si ispirassero al terrorismo sudamericano e agli scritti di Carlos Marighella, un terrorista brasiliano ucciso dalla polizia in un’imboscata nel novembre 1969. Marighella aveva sfornato un Piccolo manuale della guerriglia urbana. La traduzione italiana era stata trovata a Genova durante le indagini su una banda rossa, la XXII Ottobre, ritenuta colpevole di rapine e di almeno un sequestro di persona: il rampollo di una ricca famiglia genovese. Nel testo si leggeva: «La guerriglia urbana è soltanto un momento della lotta rivoluzionaria, è solo il primo passo verso l’organizzazione della guerriglia di campagna, quella dei contadini, e poi di un esercito di liberazione nazionale che abbatterà la dittatura del capitalismo».
Ma le sinistre erano cocciute. Continuarono a pensare che quelli della XXII Ottobre fossero volgari delinquenti e nient’altro. Soltanto l’inviato del quotidiano della Fiat, ovvero il sottoscritto, aveva fatto “la scoperta” fantasiosa di ritenerli terroristi politici di sinistra.
Quella borghesia rossa che tubava con i terroristi – IlGiornale.it
NEL 1981 L’assassinio per «punire» il fratello Patrizio
Redazione
Roberto Peci è una delle più note vittime delle azioni terroristiche delle Brigate Rosse. La sua morte fu una vendetta trasversale contro il fratello Patrizio, esponente di spicco dell’organizzazione terroristica, che dopo la cattura decise di collaborare con la magistratura e le forze dell’ordine. Roberto Peci, che faceva l’operaio, fu sequestrato il 10 giugno 1981 a San Benedetto del Tronto da un commando di 4 terroristi. Fu accusato di tradimento e delazione davanti ad un «tribunale del popolo» e nei 55 giorni di prigionia fu spesso sottoposto a interrogatorio dai suoi sequestratori, capeggiati da Giovanni Senzani. L’interrogatorio fu filmato. La Rai, sebbene la messa in onda del filmato fosse richiesta dai brigatisti, decise di rifiutare. Roberto Peci fu assassinato il 3 agosto del 1981. Lo stesso Senzani filmò l’esecuzione, avvenuta con 11 colpi di mitra in un casolare abbandonato.
NEL 1981 L’assassinio per «punire» il fratello Patrizio – IlGiornale.it
A Locarno vanno in scena i deliri dell’ultimo brigatista
In Sangue recita Senzani, killer mai pentito di Roberto Peci. E dice: “Ho ucciso un traditore ma non sono un cattivo maestro”
Paolo Giordano
«Delbono choc». «Passaggio a vuoto per Sangue». E via così. È stata una caporetto, almeno a giudicare dai primi commenti, il battesimo al Festival di Locarno di Sangue, il nuovo film di Pippo Delbono che avrà una distribuzione irrisoria nelle sale ma distribuirà ceffoni alla memoria e al buon senso di tanti italiani.
D’altronde la decisione di mescolare in un unico copione gli ultimi istanti di vita della propria madre con le memorie di Giovanni Senzani «del capo più ambiguo e sanguinario delle Brigate Rosse» (il Fatto scripsit) aveva un destino già scritto. Ma la realtà ha drammaticamente peggiorato le aspettative. Quando Sangue è stato proiettato ai giornalisti, qualcuno se ne è andato dopo mezz’ora e non importa se per ragioni estetiche o politiche. E quando è iniziata la conferenza stampa, apriti cielo.
Pippo Delbono, regista molto impegnato ma poco impegnativo, che anche stavolta ha confezionato il proprio film utilizzando quasi esclusivamente i cellulari, ha risposto rimanendo vago nei propri confini incerti: «Da piccolo giocavo con le bambole e odiavo le pistole, sono un buddista distantissimo dal delirio della violenza di quegli anni, anzi di quella gente avevo quasi paura». Oppure «la morte di mia mamma (filmata per intero – ndr) è stato un messaggio d’amore e io avevo bisogno di quello e di uno che parlasse di quel passato». Appunto.
Quando Senzani, aggrappato a una lucidità acritica che lascia tuttora senza parole, ha iniziato a parlare di quel passato, tutti sono rimasti senza parole e qualcuno, in sala stampa, ha riassunto urlando: «Ha ucciso Roberto Peci e ora trascorre la sua vita al mare con il nipotino». Senzani, che secondo molti ha avuto a che fare anche con il sequestro Moro ed è colpevole dei sequestri D’Urso e Cirillo, era nel commando Br che, seguendo un metodo mafioso (assassinare un parente del proprio obiettivo) ha rapito e ucciso l’operaio Roberto Peci, fratello di Patrizio il primo pentito delle Brigate Rosse.
Per di più Senzani, un criminologo nato a Forlì nel 1942, mai pentito, in semilibertà dal 1999 dopo diciassette anni di carcere e definitivamente libero dal 2010, ha pure filmato attimo per attimo la morte. Un paio di settimane fa all’Espresso ne aveva descritto gli ultimi momenti con sprezzo indifferente, che è misteriosamente passato sottotraccia. E ieri, dopo aver (ebbene sì) lamentato la tortura subita dalle forze dell’ordine al momento dell’arresto, ha riconosciuto con nonchalance di aver torturato «anche psicologicamente» la sua vittima durante i 55 giorni di rapimento (non casualmente gli stessi riservati ad Aldo Moro). Aggiungendo: «La morte è sempre orribile quando la si dà e quando la si subisce, fu una decisione politica». E non importa che Patrizio Peci non c’entrasse nulla: era «traditore» come il fratello pentito perché «questo è nelle carte processuali. La nostra verità è che erano entrambi brigatisti a livelli diversi».
Agghiacciante che dopo 32 anni non ci sia neanche uno straccio di parola consapevole e addolorata ma tant’è: è persino inutile inciampare nell’indignazione. «Non posso più essere un cattivo maestro – ha detto -. Durante il funerale di Prospero Gallinari ho visto quello di Aldo Moro, della guerriglia, della lotta armata, è una storia finita». Di certo lo sarebbe stata un poco di più se il film di Delbono si fosse sviluppato come (forse) era nelle intenzioni ma non, a giudicare dalle reazioni, nelle realtà: ossia affiancare la morte di una persona cara (nel film si racconta anche la scomparsa della moglie di Senzani) con quella di una follia sanguinaria della quale l’ex ergastolano, fondatore tra l’altro del Partito della Guerriglia, fu senz’altro uno dei motori più potenti. Missione fallita. E non certo perché il film, a seguirne le critiche, non mostra la precisione analitica che, ad esempio, si trova in libri come Il sole dell’avvenire di Fasanella e Pannone. Ma perché è perso in partenza il tentativo di confrontare due dolori così sconfinati. Se non altro perché uno, a quanto pare, non è mai stato provato: «Non abbiamo lasciato traccia», ha detto ieri Senzani. Chiedete conferma ai parenti di quell’operaio ripreso mentre moriva ucciso, e incolpevole.
A Locarno vanno in scena i deliri dell’ultimo brigatista – IlGiornale.it
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