ERICA ZINGAROPOLI / LA SUA AFRICA
Francis, un sorriso di serenità
Il minibus che mi porta a Diani è ancora vuoto, il conducente ha le mani sul volante e sussulta tra le scosse del motore acceso in attesa della partenza. Sono seduta dietro di lui. Lo sportello accanto al suo si apre e un ragazzo gli si siede accanto, mette una mano sullo schienale e si volta verso di me. Mi sorride, mi saluta, ma prima che gli risponda, lui già sorride e mi fa un’altra domanda, poi un’altra ancora e poi sorride. L’autista si volta verso di me e mi dice di non farci caso, è in un mondo tutto suo.
Francis ha venticinque anni, è alto, ha i capelli cortissimi, ampie narici, la bocca grande, e la pelle nera, di velluto. I denti bianchissimi si rivelano in uno splendido sorriso. Continua a parlare con me, mi guarda e ride di una conversazione a cui non partecipo, ma lui si rallegra, guarda in su, poi scuote la testa, socchiude gli occhi, sorride, sorride senza smettere mai. Mi sono chiesta quanto splendido fosse il suo mondo, pieno di risposte che lui vorrebbe e che ottiene, chiuso nella sua realtà fuori dal caos di Mombasa. Fuori dalle luci, le auto, la musica, il mercato soffocante, il caldo, la sabbia che si alza e finisce negli occhi, la gente che urla, che vende, che chiede elemosina, i fumi dei cibi cucinati per strada, i bambini scalzi e nudi che si rincorrono, il fango per terra, i cumuli di spazzatura. E Francis non ascolta, non assiste, lui sorride, si domanda mille cose tutte insieme, non soffre di risposte che potrebbero ferirlo, non vede il broncio della gente, non coglie gli insulti, non comprende la tristezza, il suo mondo pieno di colori gli dà ciò che lui desidera. Traspare la sua voglia di vivere, la pace interiore che emana, la serenità, tutto passa guardano nei suoi occhi. Trascina con sé, dimentichi tutto ciò che c’è, ti porta lontano nei suoi discorsi fatti di grandi lettere di marzapane colorato, messe una accanto all’altra da un bambino che gioca e che legge un suo significato in frasi stabilite senza senso, nei suoi occhi che possono vedere ciò che gli altri non possono, che creano figure che non esistono. Mette insieme i pezzi di un mosaico gigante che disegna una città e la sua gente, lui può toccarli, il suo mondo glielo permette e nella sua gioia non ha bisogno di altro.
Dopo pochi minuti Francis scende dall’autobus, l’autista gli ha dato venti scellini, lui li tiene tra indice e medio e probabilmente non sa cosa siano o cosa farsene. Mette le mani sul portellone posteriore e continua a chiedermi mille cose che non comprendo. Gli sorrido, lui sorride e chiude gli occhi, piega la testa sul lato poggiando l’orecchio sulla spalla, muove le labbra nel suo sordo frastuono, nella sua musica soave che lo porta via, poi mi guarda per l’ultima volta e mi fa un cenno di approvazione con il capo, l’autobus è pieno e inizia a muoversi.
Francis ci segue con lo sguardo, le mani sono poggiate sui finestrini e la bocca preme sui vetri impolverati, come un bambino che saluta suo papà e non vuole che vada via, poi si ferma, lascia scorrere le mani sul mezzo, lungo i finestrini, il cofano, finché ci allontaniamo. Mi volto ad osservarlo, prima di perderlo nella prossima curva che stiamo per imboccare. Si incammina mentre la maglietta gli disegna le spalle e lui continua a voltare il capo da una parte all’altra, a ondeggiare le mani, sempre lì, nel suo mondo che non lo lascia andare, nelle risposte che lo fanno star bene, con un sorriso grande come il sole.
Erica Zingaropoli
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