COMIZI NEL SALENTO di Giuseppe Puppo

| 10 Gennaio 2014 | 0 Comments

 

 

“Comizi nel Salento” è un’indagine multimediale, di parole, immagini e suoni,  condotta sul territorio, di volta in volta su di un tema specifico, dedicata all’immaginario collettivo, alla memoria condivisa, all’identità, alle tradizioni.

Si tratta in particolare di una ricerca sulle modificazioni epocali sopravvenute in un cinquantennio, quindi nell’arco di due generazioni, dalla Lecce degli anni Sessanta e della mia adolescenza, a quella dei giorni nostri e del mio ritorno, allargando l’inchiesta in tutto il Salento, per vedere che cosa cambia, nel bene, nel male, nella nostra vita quotidiana, nella nostra identità di contemporanei.

Nella foto in b/n Amintore Fanfani 1960 all’epoca capo del governo, in quelle a colori S.Rosa come si presenta oggi.

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IN ESCLUSIVA SU www.lecccronaca.it  work in progress i testi scritti; le foto; i video; le interviste, i commenti e le testimonianze.

 

L’autore: http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Puppo

 

 

1/ LA CASA

 

Nella mia geografia dell’anima c’è un continente perduto, un’isola che non esiste più, ma che un tempo, alcuni decenni fa, prima che scomparisse, prima che, anzi, fosse disintegrato, esisteva e a modo suo prosperava.

Si chiamava, chissà perché, Stalingrado. Brutto d’aspetto, ma bello e vibrante nel carattere, era costituito da una serie di palazzine che ricordo, da lontano, da dove le vedevo passandoci vicino, nere e sgangherate; là la vita scorreva senza fretta, povera, ma bella, semplice, umile, scandita dalle tappe del quotidiano, che diventavano comunque tutte, per una ragione o per l’altra, vere e proprie occasioni.

 

Io ne stavo ai margini. Lo conoscevo soltanto indirettamente  Il mio quartiere era un altro. Era appena sorto dal nulla, cioè dalla campagna, come nella canzone di Adriano Celentano. La mia via Gluck aveva nome Coronatelli, ma in seguito, pur rimanendo la stessa, prese il nome di Giovanni Verga. A Santa Rosa.

C’erano le  palazzine linde e ordinate, a gruppi e a isolati, i giardinetti, le panchine, una scuola elementare appena finita. C’era la chiesa, un giovane parroco, don Salvatore De Giorgi, che poi sarebbe diventato vescovo, e poi ancora cardinale, fra i più vicini al Santo Padre. Don Salvatore, come continuano a chiamarlo qui tutti i suoi parrocchiani di un tempo, a Santa Rosa torna ancora adesso ogni volta che può e ogni volta è sempre una festa per tutti. A me, piccolo chierichetto, insegnò a leggere, o meglio, a declamare, a parlare in pubblico, a saper stare in mezzo agli altri.

Non torna più invece il parroco che lo sostituì, prima di diventare vescovo anch’egli, don Vito De Grisantis, perché è morto da qualche anno, però il suo ricordo è ancora adesso parte integrante del quartiere.

 

 

A mano a mano che le costruivano, le palazzine basse, colorate, si animavano e le case venivano comprate, e quindi curate, animate, tenute con amore, da altrettante famiglie semplici, operose, monoreddito, con figli, di militari, impiegati, operai, che pure divennero tutti proprietari, in quegli anni Sessanta del così detto “boom” il cui suono si ascoltava pure in quella remota periferia di una città non solo di periferia, ma pure del Sud, e anzi, come diceva il suo figlio più illustre, Carmelo Bene, al Sud del Sud dei Santi, con le Cinquecento e le Seicento che spuntavano parcheggiate fra le stradine del quartiere, con le antenne rudimentali che contorte si levavano sui terrazzi delle palazzine. C’erano tanti bambini e le grida dei loro giochi nei giardinetti, fra le panchine colorate, erano la voce più squillante e più piacevole dell’intera zona.

 

Poi, a un certo punto, tutto finì. Negli anni Settanta Stalingrado, come era avvenuto durante la guerra all’omonima metropoli russa, fu rasa al suolo e divenne all’improvviso un cumulo di macerie, presto spianate.

 

Gli abitanti furono “deportati” in un altro quartiere appositamente costruito in una zona distinta e distante della città, detta la zona 167. Ma non era la stessa cosa. I palazzi erano alti, ineleganti, ammassati gli uni sugli altri.

Ben presto si degradarono, ma soprattutto si degradò la vita dei suoi abitanti.

 

Forse furono i tempi che cambiavano, in teoria in meglio, in pratica sostanzialmente in peggio, forse l’inadattabilità del luogo, forse i problemi che spuntarono, le mutate condizioni del pubblico e del privato, o forse chissà che.

Pure il mio quartiere piccolissimo borghese a poco a poco non fu più lo stesso, quel suo decoro cominciò a scemare.

Anche la mia infanzia, povera, semplice, bellissima, piena di amicizie, di scoperte e di emozioni, pure la mia adolescenza, animata da sacri furori ideologici, ma soprattutto di desideri di conoscenza, finirono una dopo l’altra.

Condivisi il destino in comune di questa città, i cui abitanti partono e poi sognano di ritornare, oppure restano, sperando di andare via presto.

Io sono tornato da poco, dopo tantissimi anni. E sono tornato da dove partii, sono tornato a Santa Rosa.

 

Questo è il racconto di un viaggio nel tempo, prima che nello spazio.

 

Raggiungeremo addirittura dall’interno il buco nero, che ricostruiremo con una adeguata testimonianza, per poi trasferirci nel satellite brutto che ha generato.

Nel tempo, più che nello spazio, partiemo però Santa Rosa, con le voci, con le immagini, che si affiancheranno sempre a queste parole scritte, e perciò questi sono comizi. Salentini.

 

La nostra indagine affronterà così il problema della casa, cercando di capire come veniva acquisita (acquistata) nei decenni passati e come ciò non è possibile ai più al giorno d’oggi, almeno per il così detto “ceto medio”, che fra l’altro, nel frattempo, è una categoria sociologica che non esiste più, mentre una volta era la parte sana e buona della società dei giorni nostri, in cui ancora sono scomparse tante altre cose sane e buone.

Ricostruiremo – sempre attraverso i comizi degli abitanti comuni, mai mai anonimi o insignificanti, del tempo – un’altra cosa che è scomparsa: i rapporti di vicinato, intorno alle abitazioni del passato, quella parte sana e buona del vivere quotidiano che certo, se non altro, lo aiutava, lo faceva più facile, e forse migliore.

 

Andremo ancora più indietro nel tempo, andando a verificar a ritroso come ci si costruiva, più che acquisiva, o acquistava, una casa, il modo antico di abitare, in una zona rurale del Capo.

 

E concluderemo questo nostro viaggio nel Salento, nella dimensione – casa, fra pubblico e privato, prima in una zona vicinissima all’Adriatico e alla città di adesso, eppure solitaria, isolata, da entrambi lontanissima, Borgo Piave, dove il tempo pare essersi fermato, per poi poter arrivare là dove si è fermato o spazio, in dimore contemporanee, o quasi, eppure disabitate, a pochi chilometri dallo Jonio, a Monteruga, in un vero e proprio paese – fantasma, abbandonato dagli abitanti da alcuni decenni, ma che resiste ancora affascinante, vagamente inquietante, nella sua bellezza misteriosa, e che, a saperlo andare a ritrovare, soprattutto a saperne ascoltare la voce del silenzio, ha ancora tante cose di meraviglioso da dire.

 

***

(1/b) Un quartiere nel cuore

 

Ogni volta che, per una ragione o per l’altra, capito a Roma, mi piace soggiornare all’Eur, che sento proprio mio, come se fosse aria di casa, in particolare dalle parti del Palazzo dei Congressi e del Laghetto; poi, mi piace sempre fare comunque un giro dalle parti del Flaminio e del villaggio Olimpico,  perché fu la prima zona della capitale che conobbi, la prima volta che ci andai ancora ragazzo e niente avviene mai per caso.

Mi piacciono comunque quei palazzi imponenti, che al tramonto si svuotano e si trasformano in silenziosi, vagamente inquietanti, nella loro metafisica presenza, alloggi spettrali, specie nei loro portici; quelle grandi strade piene, prima, poi deserte, e quelle piccole che segnano di spazi fra un palazzo e l’altro; quell’atmosfera di composta solennità e di rassicurante affermazione; quel traffico che passa da caotico a rarefatto; quel passaggio di adattamento da un’epoca, all’altra, dal fascismo degli anni Trenta, allo spirito del boom economico, degli anni Sessanta, da cui è segnato tutto l’Eur; e quell’analogo spirito di palingenetica metamorfosi che segnò il Villaggio Olimpico quando fu riconvertito nelle case per gli impiegati dello Stato, pure con i successivi nuovi passaggi, da degrado e abbandono, a dignità e decoro.

 

 

A Santa Rosa, a casa mia, non c’è il laghetto, ma c’è una fontana, per quanto sia sempre spenta e risulti quindi surreale. Ci sono i portici fra le palazzine, basse, e le villette, e le stradine degli interni che al tramonto, pure d’estate, sembrano abbandonate, nel silenzio vagamente inquietante, eppure vissuto, partecipato, e quindi pure al tempo stesso rassicurante.

 

Certo, una cosa è L’ Eur e come e perché nacque e un’altra il villaggio Olimpico; un’altra cosa ancora Santa Rosa.

Ma, cercando una documentazione su internet, ho fatto un scoperta importante e per me rivelatrice: un architetto romano, Francesco Berarducci che ha lavorato ai progetti per l’edilizia residenziale a Roma è lo stesso che progettò le palazzine Ina casa al quartiere Santa Rosa a Lecce.

(FONTE: Wikipedia – http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Berarducci)

 

Ecco, ecco il perché di quei volumi essenziali, di quell’insieme di composto e richiamato decoro, di quegli spazi insistiti, e di tutti quei particolari che, se non nel complesso, di sicuro in tanti dettagli, mutatis mutandis, richiamano alla stessa origine ideale! La stessa mano, la stessa aria, di casa, è proprio il caso di dirlo!

 

Le origini di Santa Rosa a Lecce vanno ricercate negli anni Cinquanta, quando prese il via un piano imponente di edilizia abitativa, detto INA – CASA.

Ci tocca rimpiangere la Prima Repubblica, in seguito deteriorata e implosa nel suo sistema bloccato, travolta infine dalla corruzione, ma all’origine sana quanto basta e soprattutto seria, così stanno le cose!

Fu una realizzazione politica fatta davvero per bene, anche per le idee di fondo che sottintendeva e da cui era animata: una specie di solidarietà di massa, parcellizzata sul territorio nazionale; un’opportunità concreta per i senza – tetto, o per i pecari abitativi; la ricostruzione effettiva, un invito vero a riconciliarsi con la società, partendo dal soddisfacimento di un bisogno primario.

 

Oggi, più che costruire, bisognerebbe ricostruire. Oggi poi bisognerebbe dire basta alle speculazioni del privato, che tanti scempi edilizi hanno prodotto nelle note città e che comunque sono all’origine delle sperequazioni sociali esistenti.

Oggi acquistare una casa è stato prima, fino a poco fa, collocarsi una specie di capestro, di nodo scorsoio al collo, col mutuo bancario, che così adesso soffoca le famiglie italiane e, complice anche le tassazioni insostenibili, ha contribuito alla scomparsa del ceto medio, un tempo diffuso e vera e propria spina dorsale animatrice della Nazione italiana; e poi, è diventato praticamente impossibile, per i giovani debilitati dal precariato e storditi dalla mancanza di fiducia.

 

Il piano INA – CASA, detto anche piano – Fanfani, dal nome del poi celebre ministro del lavoro e della previdenza sociale Amintore Fanfani, diede un’abitazione a decine di migliaia di Italiani, specialmente quelli meno abbienti, realizzando nell’arco di poco più di un decennio 355.000 unità abitative, assegnate al ritmo di 550 a settimana ad altrettante famiglie. Tutte proprietarie, ed è il capolavoro sociale del piano: infatti, la casa si pagava nel tempo con una trattenuta mensile dello 0,6 % sullo stipendio, mentre il doppio era a carico del datore di lavoro.

 

Insomma, se una legge prevedesse e realizzsse qualcosa di simile ai giorni nostri, anche un giovane “precario” da mille euro al mese di una famiglia monoreddito potrebbe abitare – e da proprietario – in una casa decorosa, con sessanta euro mensili.

Questa è la Politica! Quella che sa soddisfare in maniera ecente i bisogni primari del popolomeno abbiente!

 

Ancora, allora nelle varie città i lavori furono affidati a piccole imprese, che a loro volta si servivano di mano -d’opera locale e quindi ebbero un’occupazione stabile altre decine di migliaia di lavoratori.

Infine, materiali e realizzazioni, ispirate a un sano neorealismo abitativo, una funzionalità felicemente in bilico fra tradizione e modernità, interpretavano e reinventavano gli spazi, con attenzione pure agli spazi – verdi, piccoli, ma funzionali, anche quale luogo di aggregazione, non rinunciando nemmeno a particolari architettonici degni di nota, come le opere d’arte qua e là disseminate da un angolo all’altro, l’ultimo dei quali era la targa policroma in ceramica, che richiamava l’idea della casa quale luogo felice, posta su ogni palazzina.

 

Mai più in seguito è stato fatto qualcosa di simile, anzi, lo Stato, le classi politiche che si sono succedute negli anni seguenti, dalla Prima alla così detta Seconda Repubblica, dal centro – sinistra e dal compromesso storico degli anni Settanta, a quello di Craxi, Andreotti e Forlani degli anni Ottanta e primi anni Novanta; da Berlusconi, a Prodi, fino a Monti e Letta; tutti hanno lasciato mano e piedi il settore in balia della speculazione privata, con i guasti fisici e sociali cui ho accennato, fino a rendere il bisogno primario della casa un’altra emergenza e un problema conflittuale, se non addirittura un miraggio, per la grande maggioranza degli Italiani, divenuti nel frattempo sempre più poveri e soprattutto sempre più sfiduciati e insicuri.

 

Proprio Amintore Fanfani, nel frattempo diventato di nuovo presidente del consiglio, in una delle tappe della sua non solo prestigiosa, ma tout court storica carriera politica (ed era di umili origini! e si mantenne sempre onesto! Ma guarda se devo tessere io, che della Dc fin da ragazzo non volli mai sapere, a tessere l’elogio di un democristiano, ma tanto è: approdati alla Seconda Repubblica, come detto, per tante cose ci è toccato in sorte rimpiangere la Prima!) inaugurò il quartiere Santa Rosa a Lecce. Correva l’anno 1960. In una foto dell’epoca lo si vede a bordo di un’auto scoperta, circondato da questurini gioviali, percorrere a passo d’uomo la via di piazza Indipendenza, lungo i portici, delle palazzine adornate dai tricolori sui balconi.

La storia siamo noi. Là e di lì a poco, arrivato nel quartiere che anno dopo anno si ingrandiva, pronto per la scuola elementare, cominciò veramente anche la mia.

Mi chiamavano Pino, familiarmente Pinuccio.

Tornato dopo quasi quarant’anni, così, allo stesso modo, in maniera famigliare, perché poi in fondo era un quartiere di una grande famiglia, di una comunità, mi sono sentito di nuovo richiamare per strada dai vecchi vicini di casa e conoscenti qui ritrovati.

 

 

 

 

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Category: Libri

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