“INDIZI DI ESISTENZA” DI FRANCESCO RODOLFO RUSSO

| 10 Luglio 2012 | 0 Comments

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo il primo capitolo del romanzo di Francesco Rodolfo Russo “Indizi di esistenza”, appena uscito per i tipi dell’editore Giancarlo Zedde,  come lo stesso Francesco Rodolfo Russo ci segnala prontamente.

Lo ringraziamo e lo salutiamo con affetto. Vive da anni a Torino ( attualmente è in Liguria a promuovere i suoi libri ) ma le sue radici sono qui a Lecce, dove contiamo di rivederlo presto.

……………………..

 A.D. 1480 Otranto, venerdì 28 luglio

 

Il sole, proseguendo la salita nel cielo, irradiò la costa e il mare. I raggi, distendendosi, accarezzarono le piccole creste candide che striavano l’acqua azzurro acciaio fino all’orizzonte. La luce cresceva e l’aria si scaldava, sebbene una brezza proveniente da terra provasse, dopo aver fatto frusciare le foglie palmate delle viti e quelle oblunghe e argentee degli olivi, a mitigare il calore del giorno. Sarebbe sembrata una placida mattinata d’estate se la permanenza a terra dei pescatori non avesse fatto sospettare che dovesse avvenire qualcosa che, in effetti, non tardò ad accadere. La situazione meteorologica mutò repentinamente rendendo pericolosa la navigazione. Il leggero vento, difatti, andò a scontrarsi fino a soccombere con le folate di tramontana che con impeto flagellarono anche le piccole creste, mutandole in scintillanti lance che elevandosi fino a diventare picchi causavano pendii assai ripidi che precipitavano in ampi avvallamenti.
Il cielo perse luminosità; i gabbiani, dopo aver gridato, scomparvero.

 

 

In modo inaspettato, sul flutto più alto apparve una galea che immediatamente sparì, mentre già ai suoi lati danzavano in cima ad altre onde nuove imbarcazioni. Il canale si riempì di legni che s’intuì non trasportavano mercanzie, soprattutto a causa del numero, della forma delle vele e delle insegne turche. Quelle navi, che sembravano dirigersi verso Brindisi, erano circa duecento.
Galee, galeotte, fuste e maone sembravano dirette a Brindisi, ma inaspettatamente, probabilmente perché dal largo i marosi correvano contro le imbarcazioni sollevandole, abbassandole di prua e alzandole improvvisamente di poppa, mutarono rotta e volsero verso la spiaggia confinante con i laghi Alimini, a quattro miglia da Otranto.
Gli uomini che dagli scogli avevano avvistato la flotta capirono che i Turchi, una volta approdati, si sarebbero diretti verso la loro città. Iniziarono, quindi, a correre e a gridare di ritirare le bestie dentro le mura.

L’araldo saraceno arrivò il giorno successivo.
– Akmed Ghedik Pascià è venuto con quest’armata per ordine del nostro signore Maometto II per prendere possesso della città; se la consegnerete senza combattere sarete liberi di andare con mogli e figli dove più vi piacerà; se preferirete restare sudditi di Akmed Ghedik Pascià sarete trattati come gli altri sudditi.
Quelle parole, tradotte da un interprete, ricevettero per risposta il silenzio. Silenzio che parve durare a lungo. Poi, la prima manifestazione di una volontà che si sarebbe ripetuta nella sostanza, benché con espressioni diverse:
– Questa è casa nostra; noi non andremo via da qui! – Esclamò una fanciulla.
Iniziarono il vociare e le professioni di fede.
L’araldo aspettava che qualcuno gli rispondesse.
Il capitano Zurlo chiese e ottenne il silenzio; poi dichiarò con determinazione:
– Otranto è suddita della serenissima e cattolica maestà del Re Ferdinando I d’Aragona. Se accettassimo la proposta del tuo Signore negheremmo la Patria e la nostra Fede. Dite ad Akmed Ghedik Pascià che questa gente – indicò coloro che lo affiancavano – ha resistito a Totila e ai Normanni e resisterà anche alle vostre armate. Se la volete conquistatela con le armi.
L’araldo si allontanò, dopo essersi fatto tradurre il proclama.
Subito dopo l’arcivescovo Stefano, Zurlo, Delli Falconi, il capitano Nicola Picardi e i maggiorenti della città convocarono il popolo nella cattedrale.
Zurlo fu il primo a parlare:
– Sua Maestà Ferdinando I d’Aragona, Re di Napoli, ha deciso di elevarmi a governatore di questa città. – Tacque per qualche istante, riprese: – Tuttavia, non è in questa veste che vi parlo, ma in quella di capitano del presidio militare, insufficiente a difendere Otranto. – Un’altra pausa consentì a Don Francesco di guardarsi intorno: neanche uno accennò a intervenire. Proseguì: – Dobbiamo resistere nell’attesa delle milizie di Don Alfonso. Oggi stesso invierò lettere a Lecce, Brindisi e Napoli. – Volle mostrarsi fiducioso: – Vedrete che gli aiuti arriveranno. Nel frattempo, – ordinò, – tutti devono entrare fra le mura, portando con sé cibarie e animali; si levino i ponti e si chiudano le porte e si rimanga vigilanti nell’attesa.
Terminata la riunione, il capitano Giannantonio Delli Falconi, accompagnato dal nobile Picardi, fece il giro delle mura e ordinò di prepararsi alla difesa:
– Alzate i ponti – comandò – calate le saracinesche e chiudete i rastrelli. – Infine aggiunse: – Che si gettino in mare le chiavi della città.

Uno dei maggiorenti di Otranto camminava avanti e indietro nel salone della sua casa, quando entrò una fanciulla.
– Padre, mi avete mandato a chiamare? – domandò con gli occhi bassi.
– Sì, figlia mia. Stanotte partirai per Lecce.
– Ma, padre…
– Mi hanno riferito che i Turchi fanno razzie di tutto quel che trovano nei dintorni. – Tacque brevemente, riprese: – Penso che presto sferreranno l’attacco alla città; non so per quanto tempo potremo resistere e non penso che Don Alfonso arriverà a tempo per salvare la città e chi c’è dentro. Per questa ragione, voglio che tu e mio nipote andiate via.
– Vostro nipote? – domandò, arrossendo leggermente e continuando a guardare per terra.
– Cara figliola – avvicinò a sé la ragazza e l’abbracciò teneramente. La allontanò per poterla guardare in viso. Si sforzò di sorridere, disse: – Sono vecchio, ma spero che tu non pensi che per questo motivo sia anche stupido. Ti ho vista con il tuo bel soldatino con corazza e cinghie di pelle…
– Padre…
Non le consentì di negare; la interruppe:
– Ho interrogato Carmela…
– Che cosa ne sa lei? – Alzò gli occhi per mostrare il disappunto.
– Ha avuto nove figli; vuoi che non sappia quando una donna è incinta? In ogni caso, non intendo discutere. – Ribadì quanto aveva deciso: – Questa notte partirai. Ti accompagneranno Carmela, Oronzo e Nino. Adesso va’ a prepararti.


I messaggeri per Lecce e Brindisi erano partiti da qualche tempo. Don Francesco Zurlo, ultimata la terza lettera, quella indirizzata a Ferdinando I, stava per rileggerla quando bussarono discretamente alla porta.
– Avanti! – Gridò, passando una mano fra i capelli.
– Don Francesco, sono qui ai vostri ordini – dichiarò il giovane con voce bassa ma risoluta.
– Leggete. – Intimò il governatore, mentre gli consegnava la lettera. – Ad alta voce! – aggiunse perentoriamente.
– Serenissima e Cattolica Maestà – iniziò il giovane, con un certo imbarazzo. – È indirizzata a Ferrante… – Non capiva perché dovesse leggere una lettera indirizzata al Re.
– Avanti, avanti, – lo sollecitò don Francesco. – Non perdete tempo.
– …l’istante necessità ed evidente pericolo non pare che facciamo con Vostra Maestà tanti lunghi proemi; perché l’armata turchesca che ha dimorato tanti giorni alla Valona, in quest’ora è comparsa ai danni nostri. La provisione che è nella città è poca, il nemico è potente, quale col numero di centocinquanta e più vele è venuto ad assalirci: se la Maestà Vostra non fa subito quella provisione necessaria, noi porteremo gran pericolo di perderci ed essere presi; noi dal canto nostro non mancheremo di difenderci per quanto sarà possibile, e faremo il nostro dovere; ma il manco sarebbe la perdita della Vita, e dei nostri figli, mentre quello che più importa sarà il disservizio di Dio, e il danno che potrà sostenere alla Maestà Vostra… – Il giovane s’interruppe. – Don Francesco perché…
– Proseguite.
– La supplichiamo pertanto per amore di Dio – riprese a leggere – che ci dovesse soccorrere subito contro questo cane, nostro nemico tanto potente. Né diremo altro se non raccomandarci umilmente alla Maestà Vostra, che nostro Signore guardi e conservi per lunga serie di anni con ogni felicità; e noi liberi dall’oppressione dei nostri nemici e dalla presente invasione. Data in Otranto il 28 luglio 1480.
Terminata la lettura, il giovane sollevò gli occhi e li diresse verso il governatore che, impedendosi di far trapelare la preoccupazione, con voce ferma impartì l’ordine:
– Partite per Napoli, subito. Consegnerete la lettera a Sua Maestà e riferirete ciò che vi è noto e che non è, per brevità, inserito nel testo.


Il giovane inviato a Napoli, allontanandosi di soppiatto da Otranto, ebbe comunque modo di notare le bombarde turche spinte verso la città: erano di bronzo, di ferro oppure forgiate con entrambi i metalli. Tutte, però, avevano una caratteristica che destò gran meraviglia nel soldato: erano grosse come botti e avrebbero tirato palle di pietra viva di smisurata grandezza: alcune, infatti, erano di dieci palmi di circuito, altre di otto, altre di sei. Sarebbe voluto tornare indietro sia perché avrebbe voluto combattere in difesa della città sia perché nella città viveva la ragazza che amava. Non lo fece, anzi accelerò; prima sarebbe arrivato dal Re più presto sarebbero partiti gli aiuti per Otranto.
Non sapeva però che oltre a lui, stavano per abbandonare la città, dandosi a una fuga tanto precipitosa quanto indegna, molti soldati del presidio militare.
L’indomani, a difendere Otranto ci sarebbero stati solamente gli Idruntini: perlopiù contadini e pescatori che poco o nulla conoscevano dell’arte della guerra.

 

Cuneo. Domenica 28 novembre 2010. I d’avvento.

 

Quando iniziarono a mulinare i primi granuli farinosi che, con il passare del tempo, andarono a impallidire i tetti, Ludovica ebbe la conferma che le previsioni meteorologiche dei giorni precedenti erano esatte. La donna, sveglia da almeno due ore, seduta dietro la scrivania posta sul soppalco, dominata da un’improvvisa emozione, guardò rapita la neve che scendeva priva di voce e le tornò alla mente il primo pomeriggio del sabato, quando le foglie cadute sul viale, colorate nelle varie sfumature dell’autunno, crocchiavano sotto i suoi piedi. Dopo pranzo, infatti, attratta dal sole, aveva raggiunto il rondò Garibaldi e si era avviata verso meridione, con l’intenzione di raggiungere il Santuario di Santa Maria degli Angeli. Affrontava la camminata dopo molti anni. Probabilmente per questo motivo s’era guardata attorno come se vedesse l’ambiente per la prima volta. In questo modo aveva potuto notare che gli alberi erano numerati dall’uno al milleduecentodieci. La numerazione iniziava dal lato destro andando verso il Santuario, ritornava indietro sullo stesso marciapiede per poi proseguire su quello opposto, nello stesso modo: i numeri salivano verso Sud e continuavano ad aumentare ritornando indietro. A un certo punto, sul marciapiede di sinistra aveva visto il primo cartello: nella parte superiore della cornice c’era scritto «Oasi», in quella inferiore «Aria Protetta», mentre nel mezzo in un riquadro rosso, al cui centro era raffigurato un volatile, c’era scritto L.I.P.U. Più avanti aveva incontrato altri cartelli che l’avevano sorpresa, considerato che si trovavano su un viale cittadino, perché vietavano la caccia. Arrivata a destinazione era entrata nel giardino davanti al Santuario e, prima di riprendere la via del ritorno, era salita con lo sguardo dall’area fluviale del Gesso alla Besimauda, imbiancata per metà.
Ludovica, senza rendersene conto, sollevò una mano e lasciò che rimanesse sospesa in una posizione innaturale. La penna che reggeva indicò un punto del soggiorno, quasi a voler additare qualcosa di nascosto che doveva essere rivelato. Scosse la testa, sorrise, guardò distrattamente lo scritto e chiuse il quadernone. Aprì un cassetto della scrivania e ripose con cura un plico; pensierosa richiuse il tiretto. Gli occhi andarono nuovamente all’esterno per seguire i granuli di neve. Poi, lo sguardo si appannò e il ricordo la catapultò a Sonora. Era rientrata dal Messico da una quindicina di giorni e ancora non aveva smaltito la delusione per non essere riuscita a trovare notizie inedite su Carlos Castaneda e sul suo maestro don Juan Matus, uno stregone indiano yaqui.
Aveva letto qualcosa sui due e ne era rimasta talmente affascinata da organizzare il viaggio nel Centro America. Adesso si chiedeva che cosa realmente aveva sperato di trovare. Certamente non avrebbe avuto risposte diverse da quelle lette nei libri.
– Un uomo di conoscenza sa che la morte è l’ultimo testimone, perché vede. – Pronunciò la frase di don Juan a voce bassa; poi s’interrogò: – Chi sa se adesso mi sta osservando? – Crollò il capo quasi a voler allontanare un brutto pensiero.
Guardò il quadernone. Aveva sperato che accadesse qualcosa, invece non era arrivata alcuna risposta: la penna non s’era mossa e la pagina era rimasta bianca. Le sovvenne alla mente una frase di don Juan che ammoniva di non avventurarsi nell’ignoto senza avere nessun potere perché era un’azione stupida e si rischiava d’incontrare soltanto la morte.
I pensieri di Ludovica sembravano indirizzati solamente verso una presenza che poteva essere definita nulla o tutto o, semplicemente, ciò che si desiderava che fosse.
Era arrivato il momento di muoversi; si sollevò, discese le scale e raggiunse il soggiorno. Per qualche istante guardò fuori per abbracciare i tetti che circondavano l’abitazione, poi si girò, scese i quattro gradini che portavano nel corridoio ed entrò nella stanza da letto, andò nella cabina armadio e indossò il giaccone blu. Tornò indietro. Nell’antibagno degli ospiti infilò le scarpe da pioggia e uscì.
Lentamente discese le scale, ancora attaccata a pensieri che, seppure intralciati da onde impercettibili, non interruppero il loro viaggio. Arrivata dabbasso attraversò il cortile con passo accorto per evitare di scivolare sullo strato di neve; aperto il portone e richiuso con insolito garbo si diresse verso Piazza Galimberti. I portici bassi di Via Roma la riparavano dalla neve e dal freddo. Poco prima del Duomo gettò un’occhiata all’«Antica Libreria Salomone» e rilesse gli avvisi che, ripetuti di vetrina in vetrina, ricordavano che dal 20 novembre tutti i pomeriggi, dalle 15,00 alle 19,00, c’era la svendita totale dei libri al prezzo che variava dai 3 ai 5 Euro. Non riusciva a immaginare come si potesse liquidare tutto dopo centocinquanta anni di attività, considerato che quella libreria era stata anche una delle stamperie dei Savoia; insomma un pezzo di storia della città e non soltanto. Così com’era accaduto nei giorni precedenti anche questa volta pensò che non sarebbe entrata ad acquistare nulla; se l’avesse fatto avrebbe avuto l’impressione di rubare. Era un’idea esagerata e la scacciò. Pensò invece che più avanti, sotto i portici di Piazza Galimberti, un Orso bianco ‘aveva occupato’ il posto di un’altra libreria: dolciumi al posto di pagine odorose di tipografia.
Arrivata alla piazza, invece di attraversarla, preferì allungare il percorso per rimanere al coperto.
Entrò da «Arione». Sedette e ordinò un caffè decaffeinato. Il locale era affollato dagli acquirenti della domenica. Guardò in giro, ma non le parve di scorgere volti conosciuti: probabilmente gli indigeni, benché non fosse ancora iniziata la stagione sciistica, erano fuori città.

Aspettava che la servissero, quando si scoprì a pensare alla sua richiesta: “Un caffè decaffeinato”. Avrebbe potuto anche prendere “un tè deteinato” o, magari, sempre che esistesse, “una cioccolata decioccolata”.
L’arrivo del cameriere le diede lo spunto per un altro giro d’orizzonte. Notò i primi panettoni invernali. Aveva aggiunto lei l’aggettivo, ricordando che, invece, lo scorso agosto nei negozi dove si vendeva il dolce era specificato: ‘estivo’. Sorrise. Probabilmente Cuneo era l’unica città italiana dove si vendeva il panettone anche in estate e a qualcuno sarebbe sembrato strano, non sapendo che in alcune zone della Francia il panettone si vende tutto l’anno e che la Provincia Granda e il suo capoluogo sono meta di numerosi transalpini.
Bevve il caffè, si guardò di nuovo attorno e un’altra volta i visi le parvero anonimi e non soltanto perché le erano sconosciuti. Aveva sperato almeno di scambiare un saluto. Era delusa. Ritornata nella sua terra dopo anni di assenza, aveva avuto modo di appurare quanto fosse difficile riannodare i legami di un tempo. Dei vecchi amici si erano fermati in pochi a Cuneo: conseguita la laurea, i più avevano scelto di migrare verso luoghi che offrivano maggiori opportunità di lavoro. A Ludovica il cambiamento di chi aveva deciso di rimanere appariva evidente: aveva lasciato dei giovani che desideravano realizzarsi nella città d’origine e ritrovava individui adulti con un passato a lei sconosciuto. Molti erano ammogliati, avevano figli e nipoti, altri erano vedovi, con prole o senza. Tutti o quasi sembravano contenuti nella quotidianità. La città aveva un aspetto grigio; il sole, ossia quel baluginio che fa di una persona un’anima viva, sembrava ostacolato nell’esercizio di scaldare e illuminare. Tra chi era rimasto, qualcuno dava segnali certi di crescita, mentre altri, la maggior parte, erano marcati solamente dalle rughe degli anni; la vecchiaia in costoro non era legata a un fatto semplicemente anagrafico. Come percepivano lei? Come una vecchia o come una donna che, seppure avanti negli anni, aveva raggiunto il giusto equilibrio? Poi, desiderava veramente essere considerata una persona assennata? Soltanto in parte probabilmente, vale a dire per quella porzione d’individui che esprimevano giudizi poco lusinghieri al suo riguardo. Nella sostanza, Ludovica voleva essere se stessa, con guizzi rilevanti d’imprevedibilità non sempre comprensibili in una città fin troppo placida. Per questa ragione, era difficoltoso stabilire nuovi rapporti.
Pagò e uscì.
Stava per incamminarsi verso casa, quando un urlo di dolore la fece voltare. (…)

 

Category: Cultura

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