In morte di Manuele Braj – COSTRUIRE LA CULTURA DELLA PACE
di Rdl
Abbiamo risentito, rivisto e riletto in occasione della morte di Manuele Braj, originario di Collepasso, nel grande Salento, l’ultimo in ordine di tempo dei militari italiani deceduti in “missioni di pace” all’estero, dichiarazioni che lasciano l’amaro in bocca e testimoniano quanto lunga sia ancora la strada da percorrere per arrivare al traguardo della pace.
Eppure, per noi contemporanei, per noi postumi di Hiroshima e Nagasaki, per noi approdati al nuovo secolo e al nuovo millennio, proprio questa è la metà, capace di nobilitare l’umanità: costruire una cultura della pace e far cadere finalmente senza “se” e senza “ma” ogni idea possibile di guerra. La guerra deve diventare un tabù, un elemento negativo in toto, da esecrare e da annullare come pratica in ogni dove, come è oggi, per esempio, lo schiavismo: e quanti secoli ci sono voluti per arrivare a considerare tale lo schiavismo! Bene, è ora che tale considerazione universale arrivi anche per la guerra.
Per questo non ci sono piaciute le dichiarazioni piene di retorica e di ipocrisia, quindi di una violenza ingannatrice inaudita, le solite dichiarazioni, lo stanco repertorio che ogni volta i politici snocciolano come granelli di un rosario laico.
Non è questione di centro-destra, o di centro-sinistra, anzi. Romano Prodi riuscì a essere peggiore anche in questo. Ancora, anzi, il momento in cui l’Italia è stata più in guerra dal 1945 a oggi è stato col governo di Massimo D’Alema, il quale, nel 1999, fece attivamente partecipare l’ Italia alla criminale distruzione operata dagli Americani della Jugoslavia, fra l’altro a pochi chilometri dai nostri confini e con le basi operative nel nostro territorio: ecco come egli stesso rivendicherà con orgoglio e con chiarezza tre anni dopo quanto successe: “”Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati, nei 78 giorni del conflitto, il terzo Paese, dopo gli USA e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L’Italia si trovava veramente in prima linea.“
Io vorrei ricordare infine, per quanto riguarda la sinistra radicale, che i vari Pdci e Rifondazione comunista – che pure all’epoca si divisero – hanno poi sempre sostanzialmente sostenuto tutte le scelte compiute dai governi di centro-sinistra, e questo storicamente, dalle “operazioni di polizia internazionale” in Iraq, quando erano in Parlamento.
Quanto alle più recenti “missioni di pace” in Afghanistan, come con patetici eufemismi sono generalmente chiamate le guerre al servizio dell’imperialismo americano al tempo della globalizzazione che abbiamo e stiamo attuando, col pretesto di “portare la democrazia”, ristabiliamo la realtà, ridiamo un senso alle parole: si tratta di scusa bella e buona per coprire interessi economici e strategici ben precisi.
Non ce l’abbiamo poi, sia chiaro, con i soldati americani: vengono dalle famiglie più povere, dalle periferie diseredate e sfortunate e, per sfuggire alla miseria e all’emarginazione, sono anch’essi vittime, come quelle che vanno a provocare all’estero, soprattutto fra le popolazioni civili, vecchi, donne e bambini.
Ce l’abbiamo con i banchieri, i fabbricanti di armi, e i politici, democratici, o repubblicani che siano, americani, loro servitori. Nessuno poi si permetta di dirci che non abbiamo a cuore i soldati italiani: li abbiamo a cuore, fremo per loro, perché i soldati italiani sono i figli del popolo, e so che essi ancora di più vanno a combattere, a soffrire, e spesso a morire lontano da casa per lo stesso motivo che, come una scelta obbligata, ha spinto o loro coetanei americani: trovare uno stipendio, un lavoro per vivere, che altrimenti non potrebbero avere.
A maggior ragione, che i più vengono dal Sud; molti, poi, moltissimi, da quel Salento dove stanno le nostre radici. Li abbiamo visti da vicino, i soldati italiani che hanno combattuto in Jugoslavia e in Iraq, e che combattono ora in Afghanistan, lasciando stare il Libano e tutto il resto; li abbiamo guardati nei loro occhi lucenti, nei loro volti puliti; e abbiamo parlato a lungo con loro, magari in dialetto, in uno dei lunghi e caldi pomeriggi d’estate, al mare, sotto l’ombrellone, o seduti al tavolo di qualche pizzeria, d’inverno, a dicembre, o gennaio, insieme agli amici, quando, periodicamente, ogni volta ritornano a Lecce: e li abbiamo sentiti fratelli.
Sono figli di muratori e di contadini, che si guadagnano la giornata, quei pochi euro, senza assicurazioni, contributi, mutue e ferie ( altro che gabbie salariali!) quando pure viene loro pagata, cocendo la pelle al sole scottante, e raffreddandosela sotto la tramontana, per dieci ore al giorno.
Non è questo il punto.
Il punto è che ci manca ancora quasi del tutto la cultura della pace di cui dicevamo prima e che dobbiamo urgentemente cominciare a costruire.
Vorremmo invece ricordare quello che recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, cioè le fondamenta del nostro ordinamento civile e sociale:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Ecco, no? Netto, preciso. Non c’è proprio niente da aggiungere, o da levare; niente da interpretare, o da discutere. C’è soltanto da rispettare, cosa che non hanno fatto tutti i nostri Presidenti del Consiglio e Presidenti della Repubblica ( e proprio essi! ) dal 1990 a oggi.
Come ognuno può facilmente constatare da sé, nel tono, nel lessico, nella sostanza stessa delle dichiarazioni dei politici alla morte di Manuele Braj manca completamente la cultura della pace: c’è ancora sempre e soltanto il trionfo della guerra.
Ora, certo, sono processi lunghi e difficili. Ma da qualche parte dobbiamo pur cominciare.
Ognuno di noi può farlo, cominciando, per esempio, a capire di una contabilità nemmeno più drammatica, bensì mostruosa, se presa dalla guerra in Iraq, all’ultima “offensiva” di Israele ai danni dei Palestinesi, fino alla Libia e all’Afghanistan ancora in corso: si tratta di centinaia di migliaia di vecchi, di donne, di bambini, estranei e innocenti, caduti sotto le bombe con cui gli Americani credono di poter esportare la democrazia e il modello neocapitalista della globalizzazione.
Cioè i banchieri, cioè i fabbricanti e i mercanti di armi: e “Non ci sono guerre giuste”, come diceva e scriveva in un verso dei suoi Cantos Ezra Pound spiegando poi che fintanto che ci saranno ingiustizie sociali ci saranno sempre guerre e che non ci può essere la pace senza giustizia sociale, o almeno un sistema economico più equo, una ridistribuzione delle ricchezze e dei beni almeno più corretta.
Ognuno continui poi come può. Cercando, per esempio, su internet quelle notizie che i nostri giornali e i nostri telegiornali non danno: scoprirà così che ( altro che “missione umanitaria”! ) in Afghanistan è in atto una vera e propria guerra, quindi dolore, distruzione, morte e sofferenze quotidiane.
Parlando con sé stesso, con i proprio amici, parenti, e conoscenti.
Anche così, semplicemente, come abbiamo cercato di fare noi qui adesso con noi stessi e con tutti voi, amici lettori protagonisti della nostra community, che avete avuto la pazienza di leggere questa nota.
Category: Costume e società