L’INFERNO VICINO A NOI
(g.p.) Dice: tanto si sapeva. Sapevano tutti a Taranto in qualche modo, e hanno taciuto, i più in cambio del posto fisso, stipendio sicuro, liquidazione e pensione assicura, come se già quel lavoro non fosse una vera e propria rappresentazione della condanna biblica e dovesse diventare pure un’alternativa alla salute; gli altri, tutti gli altri, dai servitori dello Stato ai servitori di Dio, giornalisti compresi ed è una vergogna nella vergogna, in cambio di mazzette, vantaggi mafiosi, carriere, favori .
Dice: ma tanto era già inquinata, dai tempi dell’ arsenale militare all’amianto, dell’Italsider, dell’ospedale per la cura dei tumori appositamente previsto e saggiamente sistemato a 20 km e pure in tutt’altra direzione anti – correnti aeree: come se al peggio non debba per forza esserci mai fine e qualcosa che è pericolosa non possa essere risanata, ma debba essere fatta diventare letale, la rappresentazione dell’altra condanna divina, della morte sicura anticipata, a credito e a saldo di una vita appena elevata a quelle soglie minimo di benessere, da ceto medio vecchio stampo, quel ceto medio che prima era emergente e ora è immerso e anzi affondato, pagato a caro prezzo.
Dice: ma a Lecce che ce ne frega, fino a Taranto sono 78 km e poi quelli hanno un altro passato, un presente diverso e niente futuro. Come se i fumi e gli scarichi velenosi della E321, l’altissima ciminiera di ben 210 metri, non arrivassero anche nel Salento, magari unendosi a quelli della centrale di Cerano dall’altro lato. Come se la vicenda non fosse una vera e propria rappresentazione emblematica della fine della nostra Seconda Repubblica: ritengo infatti, pur senza voler fare il profeta da strapazzo, comunque scusatemi se ipotizzo, che come Tangentopoli distrusse la prima, così Ilvopoli distruggerà la seconda, anzi, l’ha già minata nelle fondamenta su cui si reggeva.
E così ora ne sappiamo abbastanza. Avevamo fatto cattivi pensieri, ma la realtà si è rivelata peggiore.
C’è un’azienda di importanza strategica che invece di essere risanata, resa compatibile con l’ambiente e valorizzata, viene ceduta dallo Stato, che si accolla i debiti, a un privato, che si accolla gli utili: ok, il prezzo è giusto. Correva l’anno 1995: lo Stato era, agli inizi già abortiti della seconda Repubblica, il presidente del consiglio Lamberto Dini, il privato che acquista a credito e in comode rate un suo parente acquisito, l’industriale di lungo corso Emilio Riva.
L’inferno, invece che essere regolato, si surriscalda. Nel mondo impianti simili vengono messi a norma, perché l’acciaio è strategico per tutti, anche se così il costo di produzione aumenta; a Taranto non si investe né in sicurezza né in bonifica, in maniera da rendere il prezzo del prodotto finito competitivo sul mercato internazionale, nella logica dell’aziendalizzazione che tanti danni e anzi sconquassi ha prodotto nell’epoca nostra.
Gli altri altoforni chiudono, quelli di Taranto aumentano, come i profitti del gruppo, che vanno a occultarsi chissà dove, ma che stime attendibili, le ultime disponibili, quantificano in un’entità in euro compresa fra un miliardo e un miliardo e mezzo negli ultimi tre anni, una cifra, scusatemi, che non solo non riesco a scrivere, ma non riesco nemmeno a concepire. Concepisco però quello che sta emergendo adesso, in questi giorni, di ore in ore: soldi pagati a tutti, in primis i politici della casta, di tutti e due gli schieramenti, e tutti coinvolti, tutti asserviti, in un modo o nell’altro, dai vertici aziendali, di cui come l’ex prefetto Ferrante alcuni provengono: da quella sinistra per giunta considerata nuova e bella, che nella migliore delle ipotesi ha assecondato in buona e cattiva fede, ai vertici istituzionali, dai ministeri interessati, dall’industria, all’ambiente, a quelli regionali, agli enti locali.
Tutti sapevano, tutti coinvolti.
Mentre a Taranto si muore e ci si ammala molto di più che in ogni altra parte, non solo e non voglio mettermi a giocare con le cifre e cola la medicina: fosse soltanto una vita in più, rispetto alle cause chiamiamole naturali, non varrebbe un miliardo e mezzo di euro di profitto di Emilio Riva, e purtroppo non è una sola, sono decine, centinaia nel corso degli anni, migliaia oramai fra trascorsi e prospettive, come le malattie degenerative chiaramente e direttamente indotte dalla fabbrica dei veleni. Mentre a Taranto la fabbrica dei veleni continua a riversare nell’atmosfera sostanze altamente nocive, tossiche , letali e le correnti aeree le spargono ai quattro venti, compresi quelli che le portano qui nel Salento.
Il Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, ha recentemente dichiarato che ”i dati sulla mortalità per tumore pubblicati dall’Istituto superiore di sanità e dall’ osservatorio dei tumori della Puglia proverebbero che la mortalità per tumore della città di Lecce è superiore a quella di Taranto”; il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante che “la città di Lecce è più inquinata di Taranto“.
Dichiarazioni che ove corrispondessero a verità dovrebbero far balzare tutti dalle sedie, e che invece a Lecce sono state accolte col solito pressappochismo, o menefreghismo, come se fossero le polemiche sulla squadra di calcio. L’unico ad allarmarsi è stato il consigliere Carlo Salvemini, che ha chiesto e ottenuto un consiglio comunale monotematico e aperto, con la partecipazione di esperti e periti, per discutere la situazione e i pericoli sulle popolazioni salentine.
Sono passati due mesi e di questo fantomatico consiglio, del consigliere che l’aveva sollecitato e del sindaco che l’aveva concesso, non se ne sa più nulla.
Il prossimo consiglio comunale è previsto per il 10 dicembre: è convocato su undici punti, su questioni che abbracciano l’universo modo, ma non su quella che dovrebbe avere la priorità e l’esclusiva.
Infatti ricordo che il sindaco ha fra i suoi poteri, ma anche fra i suoi doveri, quelli di adottare le ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica.
Per tutti questi motivi l’inferno ci è vicino e lo seguiremo attentamente tutto quanto, perché c’è la necessita urgentissima di capire e far capire, seguire e far intervenire, in quelli che saranno i dirompenti sviluppi, fino – perché dobbiamo farcela, tutti assieme- a uscirne fuori, in un modo o nell’altro.
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