ARIA DI ROMA/ DAL “GIULIO CESARE” AL “PALMIERI” SUL FILO DEI RICORDI
In una giornata importante come quella di mercoledì, la loro partecipazione allo “sciopero” studentesco era più che prevedibile.
Mi riferisco agli studenti del Giulio Cesare, il liceo classico con la L maiuscola della capitale che troneggia imponente su Corso Trieste.
Il mio appartamento dalle mura sottili è permeabile alle urla di rivolta degli studenti.
Ogni loro lotta è stata in qualche modo mia.
Gli striscioni che ricoprono il cancello d’ingresso.
I discorsi al megafono ed i battibecchi tra i due rappresentanti di istituto.
I sit in, i flash mob, gli scioperi, le occupazioni.
Circa dieci giorni fa, gli studenti hanno organizzato un’assemblea straordinaria all’interno dell’istituto. Uno degli agitatori di folle del momento citava ripetutamente e con manifesta ignoranza l’articolo 3 della Costituzione, suscitando la mia ilarità di studentessa di giurisprudenza. Ma il mio sorriso non si è trasformato in una smorfia volta a sbeffeggiarli. Tutto quel fervore mi ha divertito. Quel senso di partecipazione che li univa, la convinzione un po’ sciocca e romantica di poter cambiare in un giorno, da soli, il proprio futuro, mi ha fatto ripensare ai miei anni di liceo ed al furore combattivo degli studenti del mio Palmieri.
Ricordo la prima manifestazione cui partecipai, contro la riforma Moratti, a quei tempi ministro dell’Istruzione. I rappresentanti avevano dipinta sul volto la stessa espressione dannata ed audace di William Wollace in Brave Heart. I loro scagnozzi bloccavano i crumiri di turno, invitandoli a non entrare prima con motivazioni reali più o meno correttamente estrapolate dall’ultimo tg, poi persuadendoli a fare una passeggiata sul corso con gli amici piuttosto che stare seduti da soli in un’aula vuota, magari rischiando di essere interrogati.
I “quartini” (studenti di quarto ginnasio, appena usciti dalla tranquille certezze della scuola media), tenevano gli striscioni con orgoglio, sentendosi gli indispensabili eroi del momento.
Mentre la voce di Rino Gaetano cantava “chi va a Porta Pia” dal camioncino in testa al corteo, iniziava la lunga transumanza attraverso Viale dell’Università, destinazione finale: la facoltà di Lettere.
Non più bambini ma neppure adulti, ci sentivamo carichi di tutte le responsabilità del mondo ed artefici della Storia, nuovi sessantottini di una piccola provincia del Sud Italia di cui i Palazzi del Potere in quelle giornate probabilmente non avranno neppure sentito parlare.
Probabilmente la maggioranza di noi era scarsamente informata sui contenuti della singola protesta, ma eravamo spinti all’azione da una gamma di esigenze molto più ampia.
Eravamo soldati dell’Idealismo, con bandiere al posto delle armi e le kefiah come armatura. Eravamo uniti più della falange romana e quindi forti ed invincibili.
Protestavamo pacificamente contro un mondo che non era propriamente come Walt Disney l’aveva illustrato. Un mondo in cui a vincere erano sempre i cattivi, ed il Robin Hood- Peppino Impastato cadeva ucciso da cattivi così crudeli da far sembrare Re Giovanni e le sue guardie delle anime pie.
Protestavamo per tutte le esigenze per le quali un ragazzino di 15 anni si sente inadeguato ed in dovere di fare qualcosa. Protestavamo per la pace globale ma anche e soprattutto per quella individuale.
Forse è vero quello che mi ha detto un mio amico a distanza di anni, deludendo un po’ i miei ricordi idealizzati dell’adolescenza : “Le manifestazioni si facevano principalmente per due motivi: per far colpo sulla ragazza carina di seconda B e per saltare il compito di matematica“. Ma io mi chiedo: conquistare la ragazza di cui si è innamorati non vale, forse, una piccola rivoluzione?
Maria Vittoria Vernaleone
Category: Costume e società