L’approfondimento – Dopo la nuova vittoria elettorale HUGO CHAVEZ, IL PRESIDENTE DEI POVERI IN UN MONDO CHE STA CAMBIANDO Italia sottocchio, mondo con cannocchiale – Rubrica a cura di Bepi Anguilla. Rassegna di documentazione – Speciale Hugo Chavez
A BENEFICIO DELLE CLASSI POPOLARI
di Gennario Carotenuto
Fonte: gennarocarotenuto.it
8 OTTOBRE 2012
L’immagine che non troverete commentata sui nostri media è quella di Hugo Chávez, del dittatore trinariciuto Hugo Chávez, accompagnato al seggio dal premio Nobel per la Pace guatemalteco Rigoberta Menchú e da Piedad Córdoba, che da noi è meno conosciuta ma che è un gigante della difesa dei diritti umani violati nella vicina Colombia. È una scelta simbolica e sono figure talmente cristalline e inattaccabili, quelle di Rigoberta e Piedad, che il fiele antichavista, che si sparge a piene mani in queste ore per sminuire l’importanza della vittoria del presidente venezuelano nelle presidenziali di ieri, semplicemente le ignora.
Rigoberta Menchú e Piedad Córdoba che sostengono Chávez sono ingombranti per chi si dedica da anni a costruire l’immagine falsa di un violatore di diritti umani e quindi vanno cancellate. Sono donne latinoamericane, indigena una, nera l’altra. Sono state vittime e hanno combattuto il terrorismo di stato, sanno cosa sia il neoliberismo, sanno cosa sono le violazioni dei diritti umani e mai le avallerebbero, conoscono la storia del Continente e proprio per questo stanno con Hugo Chávez.
Mille commenti oggi si affannano a ragionare di percentuali e di erosione del consenso o mettono un cinico accento sulla salute del presidente che non avrebbe molto davanti. Eppure fino a ieri altrettanti commenti davano per sicura la sconfitta e sicuri i brogli (delle due l’una!), nonostante chiunque abbia toccato con mano, per esempio l’ex presidente statunitense Jimmy Carter, abbia definito esemplari le elezioni nel paese caraibico. Addirittura Mario Vargas Llosa dava così certa la vittoria di Capriles da prevedere l’assassinio di questo da parte del negraccio dell’Orinoco. Calunnie sfacciate. Ventiquattro ore dopo gli stessi editorialisti commentano il 55% di Chávez come una sconfitta del vincitore. Pace. Chi conosce la politica venezuelana sa come esistano geometrie variabili e storie di continue entrate e uscite sia da destra che da sinistra nell’appoggio al presidente che, fino a prova contraria -ne erano tutti sicurissimi- doveva essere bell’e morto di cancro per le elezioni di oggi. Invece non solo Chávez è vivo, e ne andrebbe elogiato il coraggio di fronte alla malattia, ma si è confermato presidente del Venezuela.
Chávez ha vinto, che vi piaccia o no, sia per quello che ha fatto che per quello che rappresenta. Chávez ha vinto perché per la prima volta ha investito la ricchezza del petrolio in beneficio delle classi popolari che in questi anni hanno visto migliorato ogni aspetto della loro vita (salute, educazione, casa, trasporti). Non c’è nulla di rivoluzionario in questo, nonostante la retorica usata spesso a piene mani: “è il riformismo, stupido” direbbe Bill Clinton. È quanto rappresenta, invece, che fa essere Chávez rivoluzionario: conquistare pane e salute non è una conseguenza di un’economia affluente nella quale chi sta sopra può permettersi di essere così magnanimo da lasciare qualche avanzo. È un diritto fondamentale che va conquistato con la continuazione delle due battaglie storiche per la giustizia sociale e la dignità: la lotta di classe, nella quale il merito di Chávez è portare sulle spalle il peso del conflitto e quella anticoloniale, nella quale l’integrazione del Continente è un passaggio chiave.
In questo contesto la prima e più importante lezione del voto di ieri è che i venezuelani, e con loro buona parte del continente latinoamericano, non vogliono, ri-fiu-ta-no, la restaurazione liberale, la restaurazione dell’imperio del Fondo Monetario Internazionale, la restaurazione di un modello nel quale sono condannati a essere per l’eternità figli di un dio minore, mantenuti in una condizione di dipendenza semicoloniale dove le decisioni fondamentali sulla loro vita sono prese altrove. C’è un dato che a mio modo di vedere rappresenta ciò: in epoca chavista il Venezuela ha moltiplicato gli investimenti in ricerca scientifica di 23 volte (2.300%). Soldi buttati, si affrettano a dire i critici. Soldi investiti in un futuro nel quale i venezuelani non saranno inferiori a nessuno. I latinoamericani ragionano con la loro testa, hanno vissuto per decenni sulla loro pelle il modello economico che la Troika sta imponendo al sud dell’Europa e non vogliono che quell’incubo d’ingiustizia, fame, repressione e diritti negati ritorni. Il patto sociale in Venezuela non è stato rotto da Chávez ma fu rotto nell’89 quando Carlos Andrés Pérez (vicepresidente in carica dell’Internazionale Socialista) con il caracazo fece massacrare migliaia di persone per imporre i voleri dell’FMI.
Ancora oggi alcuni commenti irriducibilmente antichavisti (la summa per disinformazione è quello di Gianni Riotta su La Stampa di Torino) rappresentano il candidato delle destre sconfitto come un seguace del presidente latinoamericano Lula. Divide et impera. Erano i velinari di George Bush ad aver deciso di rappresentare l’America latina spaccata in due tra governi di sinistra responsabili e governi di sinistra irresponsabili. È straordinario come i Minculpop continuino a far girare ancora le stesse veline: l’immagine di Capriles progressista e vicino a Lula è stata costruita a tavolino dai grandi gruppi mediatici, a partire da quello spagnolo Prisa. Il curioso è che Lula rispose immediatamente “a brutto muso” di non tirarlo in ballo, perché lui con Capriles non ha nulla a che vedere e appoggia con tutto se stesso l’amico e compagno Hugo Chávez. Non importa: loro, i Riotta, facendo finta di niente, continuano imperterriti a definire Capriles come il Lula venezuelano. Allo stesso modo continuano a ripetere la balla sulla mancanza di libertà d’espressione in un paese dove ancora l’80% dei giornali fa capo all’opposizione. È un’invenzione, ma la disparità mediatica è tale che è impossibile farsi ascoltare in un contesto mediatico monopolistico. Non siamo ingenui: nella demonizzazione di Chávez c’è ben altro che l’analisi degli eventi di un continente lontano. C’è lo schierare un cordone sanitario alla benché minima possibilità che anche in Europa si possa ragionare su alternative all’imperio della Troika. Lo abbiamo visto con il trattamento riservato ad Aleksis Tsipras in Grecia e a Jean-Luc Mélenchon in Francia: non è permesso sgarrare.
Soffermarci su tale dettaglio ci svela una realtà fondamentale difficilmente comprensibile dall’Europa: è talmente impresentabile il neoliberismo che in America latina è oggi necessario nasconderlo sotto il tappeto e spacciare anche i candidati di destra come progressisti. Aveva un che di paradossale ascoltare in campagna elettorale Capriles giurare amore eterno agli indispensabili medici cubani elogiandone il ruolo storico. Come già il suo predecessore Rosales, sapeva che senza medici non ci sarebbe pace in un Venezuela che oggi conosce i propri diritti e non è disposto a rinunciarvi, altro merito storico di Chávez. I Riotta di turno tergiversavano non solo sul riconoscimento dei meriti storici di Cuba nella solidarietà internazionale (o la riducono ad un mero scambio economico, salute per petrolio) ma negano anche l’informazione che era quello stesso Capriles, giovane dirigente politico dell’estrema destra venezuelana, che l’11 aprile 2002 diede l’assalto all’ambasciata cubana durante l’effimero golpe del quale fu complice. Che vittoria per i cubani se quello stesso Capriles fosse davvero stato sincero nel riconoscerne i meriti!
privatizzazione della stessa nega a chi non può permettersela, l’educazione dei figli, la casa, passando da baracche a dignitose case popolari, oggi godono di un sistema sanitario pubblico che ha visto decuplicare i medici in servizio, di un sistema educativo pubblico che ha visto quintuplicare i maestri, di un sistema alimentare pubblico che permette a molti di mettere insieme il pranzo con la cena. “Inutili”, dice Riotta, con una volgarità razzista degna delle brioche di Maria Antonietta. Oggi queste persone, escluse fino a ieri, possono spingere il loro tetto di cristallo più in alto, respirare di più, desiderare di più, magari perfino leggere inefficienze e difetti del processo e avere preoccupazioni, quali la sicurezza, più simili alle classi medie che a quelle del sottoproletariato nel quale erano stati sommersi durante la IV Repubblica. Questo i Riotta non possono spiegarlo: è così inefficiente il chavismo che ha dimezzato i poveri che nella IV Repubblica erano arrivati al 70%.
Rispetto al nostro cammino già segnato, il fiscal compact, l’agenda Monti, il patto di stabilità, dogmi di fede che umiliano le democrazie europee, Chávez in questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto, provato, modificato ricette, ben riposto e mal riposto fiducia nelle persone e nei dirigenti in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. È il caos creativo di un mondo, quello venezuelano e latinoamericano, che si è messo in moto in cerca della sua strada. Hanno chiamato questa strada socialismo, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Anche se il cammino è tortuoso e ripido, è la più nobile delle vette.
Questo è il segno del trionfo di Chávez: nelle classi medie e popolari venezuelane vige oggi un discorso contro-egemonico a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica, della falsa retorica liberale per la quale tutti i diritti vanno garantiti a tutti ma a patto che siano messi su di uno scaffale ben in alto perché solo chi ci arriva con le proprie forze possa goderne. In Venezuela, in America latina, stanno spazzando via tutte le balle che racconta da decenni il Giavazzi di turno sul liberismo che sarebbe di sinistra. Chi lo ha provato, e nessuno come i latinoamericani lo ha provato davvero, sa bene di cosa si parla e non ci casca più. È un discorso quindi, quello chavista, che riporta in auge l’incancellabile ruolo della lotta di classe nella storia, la chiarezza della necessità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni.
Eppure il Riotta di turno liquida ancora oggi come “inutili” i programmi sociali chavisti. Che ignoranza, malafede e disprezzo per il male di vivere di chi non ha avuto la sua fortuna. Milioni di venezuelani, che avevano come principale preoccupazione della vita l’alimentazione del giorno per giorno, la salute spiccia (banali cure per un mal di pancia, operazioni alla cateratta del nonno) che la privatizzazione della stessa nega a chi non può permettersela, l’educazione dei figli, la casa, passando da baracche a dignitose case popolari, oggi godono di un sistema sanitario pubblico che ha visto decuplicare i medici in servizio, di un sistema educativo pubblico che ha visto quintuplicare i maestri, di un sistema alimentare pubblico che permette a molti di mettere insieme il pranzo con la cena. “Inutili”, dice Riotta, con una volgarità razzista degna delle brioche di Maria Antonietta. Oggi queste persone, escluse fino a ieri, possono spingere il loro tetto di cristallo più in alto, respirare di più, desiderare di più, magari perfino leggere inefficienze e difetti del processo e avere preoccupazioni, quali la sicurezza, più simili alle classi medie che a quelle del sottoproletariato nel quale erano stati sommersi durante la IV Repubblica. Questo i Riotta non possono spiegarlo: è così inefficiente il chavismo che ha dimezzato i poveri che nella IV Repubblica erano arrivati al 70%.
Rispetto al nostro cammino già segnato, il fiscal compact, l’agenda Monti, il patto di stabilità, dogmi di fede che umiliano le democrazie europee, Chávez in questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto, provato, modificato ricette, ben riposto e mal riposto fiducia nelle persone e nei dirigenti in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. È il caos creativo di un mondo, quello venezuelano e latinoamericano, che si è messo in moto in cerca della sua strada. Hanno chiamato questa strada socialismo, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Anche se il cammino è tortuoso e ripido, è la più nobile delle vette.
2 – L’ANALISI GEOPOLITICA
Lo scenario Sud americano
Federico Dal Cortivo per Europeanphoenix intervista il Prof. Carlos Pereyra Mele, argentino, analista geopolitico del Sud America
di Federico Dal Cortivo Fonte: europeanphoenix 11 ottobre 2012
1) D: Prof Pereyra Mele l’America Latina sembra essersi svegliata dopo un lungo sonno che l’ha pervasa quasi da sempre, consapevole della sua forza economica, unico continente che possiede tutto, dai minerali al legno, dagli idrocarburi all’acqua, ricco di una biodiversità che la fanno unica sulla terra e per questo preda ambita delle grandi potenze atlantiche, Gran Bretagna prima e Stati Uniti dopo. Come scrive Eduardo Galeano nel suo lucido saggio storico “Le vene aperte dell’America Latina”…terre ricche, sottosuolo ricchissimo e uomini estremamente poveri in questo regno dell’abbondanza e dell’abbandono”. Che cosa manca, forse la forza militare e politica nel suo insieme che, unita a un comune sentire, possono fare quella differenza? Qual è il suo pensiero in proposito come esperto di geopolitica sudamericano?
R: Innanzi tutto dobbiamo fare alcuni chiarimenti; quella che generalmente viene denominata come America Latina – che sarebbe meglio definire America Ispanica-, che geograficamente si collocherebbe dal Messico fino al Cono Sud dell’America meridionale, ha varie caratteristiche, una geopolitica in relazione allo spazio che occupa nel subcontinente, e quindi uno nel Nord nel caso specifico del Messico completamente integrato ad una relazione di subordinazione con il gigante statunitense (con il NAFTA). Poi abbiamo la zona dei Caraibi e del Centro America che è come una zona di ammortizzazione tra il Nord ed il Sud ed è anche fortemente condizionata a causa delle relazioni politiche ed economiche con gli U.S.A., a parte la Cuba castrista, con la presenza del Nicaragua ed alcune isole caraibiche – e l’ultimo golpe lo dimostra chiaramente con il caso Honduras, però l’importanza politica e geoeconomica di questo piccolo gruppo è scarsa data la presenza profonda di governi a tinte neoliberali e di isole che ipoteticamente hanno avuto la loro indipendenza, ma che hanno ancora la Regina d’Inghilterra come Capo di Stato. E’ importante questo tema perché a causa di questo l’organizzazione degli Stati Americani (OEA) si è trasformata in un organismo inutile perché con l’incorporazione di questi micro Stati ha sminuito l’importanza dei Paesi ispanici poiché un voto di Tobago o Trinidad vale tanto quanto quello di un gigante come il Brasile.
Il continente sudamericano è la zona che si è maggiormente sviluppata negli ultimi anni attraverso modelli d’integrazione, ma con le contraddizioni del continente capitalista e la sua lotta per accedere ai giacimenti di materie prima come Lei ha così bene descritto. Questo ha prodotto alcuni forti cambiamenti all’interno delle relazioni con le potenze straniere, che fanno intuire un barlume di novità con le vecchie alleanze.
Siamo però ancora lontani dall’avere una voce comune e un sistema difensivo unito per far fronte alle grandi sfide e minacce tenendo conto che questo subcontinente soffre di un’enorme disuguaglianza distributiva all’interno delle sue società che può essere ben strumentalizzata dall’esterno – come il separatismo in Bolivia— o la minaccia dei nostri fondamentalismi, come il caso delle popolazioni indigene che ricevono “istruzioni” dalle ONG e che hanno dato luogo a freni verso i piani di governo di stampo populista.
All’interno di questo panorama è stata molto importante la creazione del Mercosur, ampliato poi nell’UNASUR ed il Consiglio di Difesa Sudamericano.
2) In Argentina Nestor Carlos Kirchner prima e ora Cristina, in Venezuela Hugo Chavez, in Ecuador Rafael Correa, in Bolivia Evo Morales e in Brasile Luiz Inacio da Silva Lula e ora Dilma Rousseff, come giudica l’azione di questi nuovi Capi di Stato nel corso nuovo che ha imboccato l’America Latina? Secondo lei hanno saputo e sapranno dare finalmente quella svolta decisiva in senso politico al continente?
I Presidenti ai quali Lei si riferisce sono un gruppo sorto dopo la situazione caotica derivata dal consenso di Washington degli anni ’90 (neoliberismo per le Americhe) che furono un anticipo di quello che sta capitando ai Paesi periferici dell’Unione Europea in questo momento. A parte il Brasile, che ha avuto maggiore continuità per portare avanti una politica di posizionamento globale come potenza emergente, gli altri Paesi hanno applicato norme per poter riaffermare lo Stato come strumento di sviluppo politico economico.
Questo ha permesso di fare nuovi accordi regionali e di migliorare le relazioni economiche quasi inesistenti con i Paesi della regione ed è stato il maggior apporto da parte dei Presidenti menzionati, ma questo non significa che essi abbiano un pensiero comune e omogeneo e pochi vanno verso il cosiddetto “socialismo del XXI° secolo” del Presidente Chavez. Ciò nonostante essi hanno dato un’impronta e trasmesso l’importanza del subcontinente americano di cui nessuno parlava e da ciò deriva la loro importanza.
3) Da un punto di vista economico l’America Latina, se guardiamo solo le ricchezze che contiene non teme confronti, ma oggi per essere competitivi a livello mondiale è necessario creare un blocco che possa misurarsi con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, e con le potenze euroasiatiche, Cina e Russia. Il Mercusur istituito nel 1991 con il Trattato di Asuncion e di cui fanno parte Argentina, Brasile e Paraguay è stato sospeso quest’anno. L’Uruguay e assai recentemente anche il Venezuela può a suo avviso essere lo strumento adatto a tale scopo con la speranza che vi aderiscano a pieno titolo in futuro altre nazioni latine americane per ora solo membri associati, come la Bolivia, il Cile, la Colombia, l’Ecuador e il Perù?
Questo sarebbe un obiettivo di massima, quello cioè di arrivare ad un mercato comune ampliando ed approfondendo i temi finanziari, culturali, tecnologici ecc. La grande sfida attualmente consiste nel rompere con il basso intercambio regionale che non supera il 20% di tutte le transazioni del commercio internazionale Interzonale, che è bassissimo, tenendo conto che per l’Unione Europea è il 66% e per il NAFTA il 50%. Quest’ultimo risultato è dovuto al fatto che il Messico, i Caraibi e l’America Centrale hanno la maggioranza dei commerci con gli Stati Uniti, il turismo e le rimesse degli emigranti ispanici dagli Stati Uniti. Al momento la maggior attrazione economica per l’America Latina è costituita dalla Cina che si è trasformata nel principale partner commerciale: in generale si tratta di prodotti primari di basso valore aggiunto – in Argentina, per esempio, 8 prodotti concentrano il 95% della vendita al Paese asiatico e i fagioli di soia rappresentano il 71% dello stesso. Come dice un vecchio detto, “l’importante non è cambiare il collare, ma smetterla di essere un cane”; questa è la sfida dell’America Latina che approfittando della lotta per i mercati e le materie prime che coinvolgono i Paesi tradizionali ed emergenti, può approfittare dell’opportunità per rilanciarsi come spazio continentale industrializzato e svilupparsi come soggetto della storia mondiale di questo secolo XXI°.
4) Gli Stati del BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – caratterizzati da una forte crescita economica, due miliardi e mezzo di abitanti, abbondanti risorse naturali, includono già oggi il maggior stato Sud Americano, il Brasile. Secondo lei vi sono prospettive per una sinergia con il blocco del Mercusur che ne farebbe un unione economica senza confronti?
La realtà è l’unica verità, il Brasile è la sesta potenza economica mondiale, ma affinché possa sostenere questa crescita esso ha la necessità di consolidarsi in uno spazio maggiore all’interno dei suoi attuali limiti internazionali. Per questo dispone di una diplomazia e di una presenza profonda delle sue imprese ufficiali e private nel continente, sa che ha bisogno dei suoi vicini, per questo ne seduce alcuni di essi, ad altri fa vedere la sua importanza geopolitica in forma chiara.
Sa anche che, la relazione con gli U.S.A, se continua ad aumentare la sua importanza globale, avrà delle zone di “attrito” e per questo il Paese si sta preparando affinché le difficoltà non si ripercuotano sul suo nuovo ruolo mondiale intrapreso. In generale i Paesi del continente sanno di questo nuovo ruolo e cercano di approfittarne avvantaggiandosi anche loro della nuova situazione creatasi.
5) Sembrerebbe che la famosa crisi dell’economia mondiale non abbia toccato il Sud America e se lo ha fatto è solo marginalmente. Lei che ne pensa?Quello che è successo è che la crisi noi l’abbiamo già vissuta alla fine degli anni ’90, le cosiddette crisi “Tequila, Tango o Caipirina”. Da esse derivò un maggior intervento dello Stato nell’economia contro le ricette tradizionali degli organismi finanziari internazionali che chiedevano maggiori aggiustamenti che avrebbero portato ad una “morte annunciata”. Per questo motivo applicammo piani economici non ortodossi. A ciò si aggiunse un incremento significativo dei prezzi delle materie prime dando ai Paesi maggior disponibilità di denaro per le loro economie.6) Prof. Pereyra Mele, come giudica l’ALBA, Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America, il cui maggior promotore è la Repubblica Bolivariana del Venezuela in prospettiva politica?L’ALBA è un movimento importante, dall’ideologia alla lotta impari contro la “Repubblica Imperiale Usa” ed il cui centro è il Venezuela, ma ha l’inconveniente che ha delle resistenze interne da parte degli organismi economici tradizionali (oligarchie), non ha l’appoggio dell’Argentina né del Brasile e quindi la sua importanza è ridotta. E’ un esempio rappresentativo, ma paragonato alla real politik non credo che possa avere un futuro prospero, anche se ha dimostrato le debolezze degli U.S.A. ed il suo atteggiamento verso l’America Latina, evidenziando con la sua azione come noi latino americani non siamo il “cortile di casa” di nessuno.
7) Prof. Pereyra Mele, Russia, Cina stanno tessendo importanti accordi con alcuni stati del continente, l’Iran nel contesto dei cosiddetti rapporti Sud-Sud a sua volta con il presidente Ahmadinejad ha sottoscritto importanti accordi. Un’ipotetica alleanza contro la potenza talassocratica degli Stati Uniti? Lei che ne pensa?
E’ la dimostrazione che l’America latina ha la sua propria agenda ed i suoi interessi, ha fatto notare che non è il Nord che deve determinare con chi dobbiamo allearci e con chi NON dobbiamo.
La presenza della Cina è molto profonda, come ho già detto, ma anche quella dell’India è diventata forte, a esse si somma la riapparizione della Russia che ha allacciato rapporti con alcuni Paesi, scambi tecnologici importanti, che poi è quello che sta cercando di fare l’Argentina, nel senso che vorrebbe uscire dal ruolo di semplice esportatore di materia prima ed alimenti.
Recentemente il subcontinente sudamericano ha avuto una rappresentanza all’interno dei Paesi non allineati, nella recente Conferenza Internazionale a Teheran, dando una dimostrazione chiara dei nuovi tempi che corrono.
8) Di recente è scoppiato il caso Assange, e la concessione dell’asilo politico da parte dell’Ecuador del presidente Rafael Correa ha scatenato la dura reazione di Londra, mai dimentica dei suoi trascorsi coloniali, che ha minacciato anche il ricorso alla forza se necessario, per violare l’Ambasciata di uno Stato sovrano. Al di là del caso Assange, l’arroganza britannica denota ancora una volta come per gli anglosassoni in generale nulla sia cambiato nella mentalità che li ha sempre contraddistinti nei rapporti con il Sud America, considerato dalla potenza statunitense “il cortile di casa” secondo la “dottrina Monroe”. Crede Prof Pereyra Mele che in futuro si vada a uno scontro con Washington e Londra che mal gradiscono il nuovo corso latinoamericano? Lei in un suo recente studio dal titolo “Hacia un nuevo pensamento estratétegico de la Defensa Nacionale” parla di “lotta per il controllo delle risorse” come maggiore sfida per l’intero continente. La questione delle isole Malvinas potrebbe essere il “casus belli” per un’azione militare contro Buenos Aires per poi estendersi anche ad altre nazioni del continente?
E’ il rischio che, noi sudamericani, dobbiamo condividere, cioè la presenza inglese nell’Atlantico del Sud attraverso un rete di basi che operano insieme al suo alleato U.S.A. e che costituisce una minaccia nella sua zona più debole, la Patagonia; a lungo termine si può dire che essi stanno cercando un controllo delle vie interoceaniche e accesso libero all’ultimo continente non sfruttato cioè l’Antartide.
Il caso Assange ha dimostrato che il diritto internazionale è praticamente morto e quello che vige è il potere politico a livello globale e che ad essi non importa del rispetto dei diritti internazionali quando sono in gioco i loro interessi. Sottolineo ancora che quello che a loro interessa, a medio termine, è lo sfruttamento dell’Antartide.
9) Che ne pensa del golpe, perché così possiamo definirlo, attuato in Paraguay contro il legittimo presidente Fernando Lugo? La classica operazione sotto copertura, la classica guerra mai dichiarata della CIA.
Bene, il Golpe lo conoscete attraverso i suoi risultati. I gruppi che hanno operato attraverso i meccanismi pseudo democratici per rimuovere Fernando Lugo sono quei settori tradizionali dominanti della politica e dell’economia paraguaiana degli ultimi 60 anni, che hanno visto in pericolo i loro privilegi da parte di Lugo. Si tratta di un settore arcaico e conservatore del pensiero politico che cerca di mantenere i suoi vantaggi attraverso le relazioni tradizionali che ebbero con il dittatore Stroessner e con gli U.S.A. e così di seguito ecco le dichiarazioni del suo Ministro della Difesa che va annunciando una possibile guerra dentro il Mercosur ecc. ecc. Però si sono già scontrati con la loro chiusura geopolitica e la pressione di Brasilia quando ha applicato l’operazione “agata5” che paralizzò Ciudad del Este – ex porto Stroessner – la città con maggior contrabbando in Sudamerica. Si tratta di un tema sempre in auge poiché la zona della triplice frontiera è sempre stata rifugio o finanziamento del terrorismo internazionale e abbiamo già compreso che la matrice dei nuovi conflitti armati nel mondo è quella di incentivare i conflitti interni e poi inviare truppe per garantire i diritti umani ai popoli aggrediti…
10) E in conclusione i rapporti Europa e America Latina, che sviluppi si prevedono per il futuro?
Credo che il termine Latino America ed Europa siano molto ampi, come già mi sono espresso, è più corretto dire Ispano America (che non è un gruppo molto omogeneo come ho spiegato prima) e quando parliamo di Europa ci si riferisce, in modo particolare, alle relazioni di tipo affettivo-culturale per quel che riguarda Spagna, Portogallo ed Italia, ed a quelle economiche tra Germania, Francia e Inghilterra.
Gli scambi economici si stanno riducendo, come ho detto prima, a causa dei nuovi partner economici, apparsi sulla scena dell’America del Sud.
E’ ora che gli Europei smettano di vederci come qualcosa di esotico e sottosviluppato, ma come nuovi giocatori mondiali e che comprendano che devono fare molti sforzi per migliorare la loro presenza economica e che non debbano ritornare ad essere dei predatori, ma dei partner economici.
3- LA SUA STORIA DEGLI ANNI PRECEDENTI
IL PRESIDENTE DEI POVERI
di Giuseppe Puppo
da “Ritratti del Duemila” – su www.giuseppepuppo.it
( 2008 )
La caratteristica socio – economica principale della nostra realtà contemporanea, drammatica, per quanto spesso misconosciuta è insondata, è l’enorme sperequazione nella distribuzione delle ricchezze.
Ricchi e poveri, intendiamoci, ci sono sempre stati e probabilmente sempre ci saranno: ma negli ultimi decenni, anche, soprattutto, per effetto di quel complesso fenomeno che abbiamo imparato a chiamare globalizzazione, essi si sono accresciuti e radicalizzati.
IL TRISTISSIMO PANORAMA INTERNAZIONALE CONTEMPORANEO
Il 20% degli abitanti del nostro pianeta gestiscono l’80% delle risorse; l’80% e cioè circa cinque milioni di persone sono minacciate dalla fame e vivono al di sotto del limite del decoro; è aumentato il divario fra Nord e Sud del mondo e anche all’interno dei Paesi così detti “ricchi”, Stati Uniti compresi e anzi per primi, è visibilmente accresciuto il numero degli indigenti, dei precari, dei disperati.
Ciò si ripercuote anche in Italia, dove del resto è progressivamente e ormai del tutto scomparso “il ceto medio” e si è bloccata la mobilità sociale, le due caratteristiche ampie e diffuse che avevano fatto la ricchezza e la potenza della nostra Nazione: invece adesso c’è una divisione netta fra i pochi che stanno bene e i molti che stanno male, mentre chi nasce figlio di operaio farà l’operaio e chi figlio di imprenditore, farà l’imprenditore
Cadute le ideologie con la loro carica progettuale, venuti meno motivi e personaggi capaci di trasmettere quanto meno una speranza di riscatto, per lo più il problema viene semplicemente rimosso dai governati e in genere dalla politica del ricco, potente e privilegiato Occidente, che, sotto la presunta giustificazione della lotta al “terrorismo”, esercita il proprio potenziale militare; accresce l’occupazione e il controllo dei territori altrui; esporta indiscriminatamente il proprio modello di sviluppo, anche con l’avvio di sedicenti programmi di aiuti umanitari; cerca di arginare, spesso pure con la violenza, le invasioni, come quelle antiche più semplicemente le migrazioni incontrollate, dei popoli affamati, senza tetto, né legge.
Invece pare del tutto scomparsa, anche semplicemente come esercitazione teorica, la necessità di ristabilire un più giusto equilibrio socio – economico e di restituire le risorse naturali che ne sono state espropriate dalle multinazionali occidentali ai popoli sofferenti dell’Africa, dell’ Asia e dell’America latina.
Per completare il tristissimo panorama internazionale contemporaneo, c’è da aggiungere doverosamente che gli stessi governanti di questi popoli si sono per lo più adagiati nella situazione esistente e la gestiscono per approfittarne, con veri e propri comitati di affari, a vantaggio esclusivo dei loro interessi personali e dei clan ristretti da cui sono sostenuti al potere.
Così milioni di individui, certo, non più schiavi in catene, sono diventati schiavi, per esempio, delle monoculture agricole imposte dagli interessi dell’Occidente e continuano a morire di fame, o a vedersi portare via le risorse che essi detengono, in nome così detto libero mercato, in nome del così detto liberismo.
L’organizzazione internazionale per il commercio (ITO), la banca mondiale (BIRS), anche il Fondo Monetario Internazionale, persino la derelitta organizzazione delle nazioni unite (ONU) paiono del resto sempre più strumenti al servizio della potenza militare ed economica degli Stati Uniti d’America e dei suoi sudditi – alleati occidentali.
“Il mondo ha un posto per tutti, però una minoranza, i discendenti di coloro che crocifissero Gesù Cristo, si è appropriata di tutte le ricchezze del mondo”.
L’ America Latina, là dove miseria e sfruttamento, retaggi pesantissimi nella loro drammatica violenza, raggiungono toni apocalittici, storicamente ha almeno presentato con regolarità sulle scene del mondo tentativi apprezzabili di ridistribuire la ricchezza, di ridisegnare un mondo migliore e più giusto.
Qualche volta tentativi che hanno prodotto risultati più o meno notevoli, anche se fragili, oppure effimeri.
Da alcuni anni, dal Venezuela, si è affacciato un nuovo tentativo, forse l’unico e forse l’ultimo.
Ha il volto e il nome del suo presidente, Hugo Chavez.
“Il sogno della pace mondiale, il sogno di un “noi” che non ci faccia vergognare per la fame, la malattia, l’analfabetismo, necessita, oltre che di radici, di ali per volare.
Sappiamo che vi è una globalizzazione neoliberista distruttiva, ma vi è anche un mondo interconnesso che dobbiamo affrontare non come un problema, ma come una sfida.
Possiamo, sulla base delle realtà nazionali, intercambiare conoscenza, complementarci, integrare mercati, ma al tempo stesso dobbiamo intendere che vi sono problemi che ormai non hanno più soluzione nazionale: né una nube radioattiva, né i costi mondiali, né un’epidemia, né il riscaldamento del pianeta o il buco dell’ozono sono problemi nazionali.
Riaffermiamo qui, in questa sala delle Nazioni Unite, la nostra infinita fiducia nell’uomo, oggi assetato di pace e giustizia al fine di riuscire a sopravvivere come specie.
Simon Bolívar, padre della nostra Patria e guida della nostra Rivoluzione, giurò di non dare riposo alle sue braccia, né dare riposo alla sua anima, fino a vedere l’America libera.
Noi non daremo riposo alle nostre braccia, né riposo alla nostra anima fino a quando non sarà salva l’umanità”.
LA SUA POLITICA SOCIALE
Fino a pochi anni fa, in Venezuela vigeva un regime corrotto e profondamente ingiusto. Due partiti di copertura, a difendere gli interessi di poche centinaia di famiglie e delle multinazionali che vi stanno dietro.
L’assurdo di centinaia di miliardi di dollari incassati con le esportazioni di petrolio, a fronte di più della metà della popolazione ridotta in povertà estrema.
Ecco invece, in una sintesi estrema, la politica sociale che Ugo Chavez ha attuato in questi ultimi anni.
La politica sanitaria: operazione “Barrio adentro”: rete di centri diagnostici, parcellizzati sul territorio, con l’obiettivo di aprirne uno ogni 250 famiglie,
e di primo soccorso che fornisce gratis anche le medicine.
Poi c’è “Barrio adentro 2” con laboratori di analisi e diagnosi avanzata, con pronto soccorso, ambulanze, sale operatorie ad alta tecnologia.
Sanità pubblica: per medici liberi professionisti e farmacisti una concorrenza terribile, da questa sanità pubblica nata dal nulla, senza chiedere mai ai pazienti soldi e nemmeno la dimostrazione del suo stato di bisogno.
Ben diciassette milioni di Venezuelani per la prima volta nella loro vita ricevono cure mediche e assistenza sanitaria.
Il 28% del prodotto interno lordo destinato a finanziare i suoi programmi di assistenza sociale.
Le missioni di quartiere, poi.
“Robinson 2” cura l’alfabetizzazione gratuita degli analfabeti e in due anni li porta al compimento della scuola primaria.
“Ribas”: a chi non ha concluso le superiori, un diploma in due anni
“Sucre”: i corsi a distanza universitari.
Così in appena sette anni un milione e mezzo di Venezuelani hanno imparato a leggere e a scrivere e tre milioni hanno seguito corsi di educazione primaria e secondaria, da cui erano stati esclusi stante la loro povertà: di questo passo a breve l’analfabetismo sarà del tutto annullato e quel giorno sarà un giorno storico non soltanto per il Venezuela, ma, per il suo significato di speranza e di concretezza al tempo stesso, per tutta l’umanità.
Poi, per i giovani, corsi di informatica: significativamente tenuti usando il sistema operativo libero e gratuito denominato Linux, non quello americano della Microsoft.
“Habitat” per dare un tetto a chi ne è privo.
“Zamora” per applicare la riforma agraria sancita dalla costituzione che dichiara contrarie agli interessi sociali le grandi proprietà agricole.
“Mercal”: duemila punti vendita per “combattere la fame attraverso la commercializzazione e la vendita diretta di alimenti di base a prezzi solidali”.
Dodici milioni di persone ricevono generi alimentari a prezzi modici e un milione a titolo del tutto gratuito.
Così i derelitti e i diseredati, la maggioranza della popolazione venezuelana, dopo un’eternità di sottomissione e sfruttamento da parte delle oligarchie economiche al servizio del neocolonialismo americano, stanno trovando per la prima volta la loro dignità in migliori condizioni di vita quotidiana.
“Il cristianesimo è la chiave della rivoluzione. Un documento del Concilio Vaticano II che ho avuto modo di leggere e studiare afferma che la proprietà privata deve tener conto delle necessità sociali. Ciò vuol dire che essere cristiani significa essere contro le speculazioni, per lo sviluppo agricolo ed a favore della cooperazione sociale.
Il cristianesimo armonizza la proprietà privata con la necessità di convivere, perché vuole impedire che vengano arrecati danni intollerabili. Armonizzare il bene comune non significa distruggere la proprietà privata, ma tutelare i deboli ovvero la maggioranza.
La prossima tappa della nostra rivoluzione è la lotta al latifondo.
La proprietà privata non è sacra, deve armonizzarsi con le necessità pubbliche.
E’ la Bibbia che lo afferma.
Il latifondo è un gigantesco inganno ai danni del popolo venezuelano. Un pugno di persone possiede enormi quantità di territorio che non producono nulla, non sono adoperate in alcuna maniera, oziano.
Bisogna trasformare il modo di produzione.
Servono delle cooperative cui saranno affidate le terre inutilizzare, affinché possano produrre. Le espropriazioni saranno indennizzate.
Anche negli Stati Uniti la corte suprema si è espressa di recente in favore delle espropriazioni di proprietà inutilizzate.
Solo che in quel caso le espropriazioni possono essere fatte a vantaggio di altri privati, mentre in Venezuela la motivazione è l’interesse pubblico.
Si tratta di un passaggio importante verso un nuovo modello economico post capitalista teso a soddisfare i bisogni della collettività e basato sulla necessità di raggiungere la piena sovranità alimentare, grazie allo sviluppo di ogni tipo di agricoltura, strappando le terre ai troppi latifondi esistenti”.
LA SUA POLITICA ESTERA
Contemporaneamente ha avviato una precisa logica di politica estera, culminata nella vera e propria sfida agli Stati Uniti per ottenere un posto fra i membri elettivi del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Cooperazione economica e strategie politiche, contro l’imperialismo americano.
Con gli Stati Uniti, che mal digeriscono una figura come la sua, i rapporti sono tesi.
Si sono espulsi i rappresentanti diplomatici.
Sono stati limitati voli e dunque l’accesso di passeggeri e merci fra i due Paesi.
Ma soprattutto Chavez ha svincolato i profitti del suo regime dal cambio in dollari e li ha convertiti in euro.
“Dietro tutto questo c’è quello che mi ha scritto un cittadino nordamericano per lettera: Bush ha dimenticato gli aiuti agli afroamericani vittime dell’uragano Latrina, mentre ha bombardato gli Iracheni.
A San Pablo hanno chiuso una biblioteca, all’università di Berkeley mancano penne, quaderni e libri per gli studenti ispanici.
Sono pronto ad aiutare per porre rimedio a queste mancanze.
Manderò ciò che serve agli abitanti di San Pablo rimasti senza libri e agli studenti dell’università che tanto ruolo ebbe nella mobilitazione liberal e pacifista degli anni Sessanta.
Darò ogni appoggio e ogni aiuto ai poveri degli Stati Uniti.
Soprattutto a quelli che vivono in grandi metropoli come New York e Chicago.
Possono contare su Chavez”.
Ha promosso il forum dei popoli, l’ alleanza economica fra Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Venezuela. E la Cuba di Fidel Castro.
Il presidente boliviano Evo Morales ha già seguito concretamente l’esempio venezuelano: consigliato, o per meglio dire costretto, dal fondo monetario internazionale a privatizzare le proprie industrie di estrazione del petrolio e di gas, se lo è invece ripreso e ha tassato al 50% i profitti.
“Nel Sud America si concentra uno sforzo per la libertà. Da duecento anni abbiamo guadagnato l’indipendenza politica, manca ancora quella economica. Uniti la si potrà raggiungere per arrivare allo sviluppo sociale”.
Ed ecco le visite internazionali, alla ricerca di nuovi orizzonti.
Con la Siria, “accordi e meccanismi per un coordinamento comune di azioni tese a proteggere i Paesi esposti a pressioni e tentativi di assedio”.
Russia, Biellorussia, Qatar, Vietnam.
Iran: nonostante Chavez predichi una specie di socialismo cristiano, un socialismo patriottico, senza nessuna influenza musulmana, “il nostro fratello combattente” lo ha chiamato, abbracciandolo, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.
IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO
Come se fosse una colpa, viene rimproverato a Chavez di sostenere il suo modello di sviluppo, una specie di socialismo del XXI secolo, com’egli stesso lo definisce, e la sua esuberante politica sociale, a volte, come abbiamo visto, addirittura spavalda – modelli ritenuti non esportabili – con i forti proventi assicurati allo Stato venezuelano dalle grosse esportazioni di petrolio.
Embè?
E’ anzi proprio questa la prima lezione che il Venezuela dà di un mondo più giusto e migliore: le ricchezze delle materie prime sono sottratte ai profitti delle società multinazionali, sia dei governanti corrotti che nei Paesi sottosviluppati le appoggiano e invece vengono adoperati per una politica nazional – popolare, in nome e per conto dei poveri, degli umili, dei diseredati, ai quali possono essere così assicurate non soltanto migliori condizioni di vita, ma pure prospettive concrete di promozione e affermazione personale.
Tanto per fare qualche esempio, il 70% dei Nigeriani vive con meno di un dollaro al giorno, in una miseria senza speranza, mentre la Shell continua fare guadagni smisurati.
La Exxon Mobil dà alla Guinea Equatoriale soltanto il 12% dei profitti che ricava dal petrolio che estrae dal suo territorio.
E così via.
Le ricchezze delle terra devono essere utilizzare a vantaggio delle popolazioni che su quella terra vivono.
Il controllo da parte dei lavoratori dei mezzi di produzione, l’altra grandissima sfida, rimasta finora nella Storia pressoché irrealizzata.
Per ora, per volere del regime, viene proiettato nelle fabbriche, su schermi improvvisati fra macchinari ancora caldi, “Tempi moderni” , il capolavoro del 1936 di Charlie Chaplin, che svela il lato selvaggio del capitalismo.
Più concretamente, è stato imposta una nuova legislazione sul lavoro, che punta a migliorare igiene e sicurezza e far scendere i morti per incidenti, almeno 1500 decessi negli anni precedenti per infortuni sul lavoro.
Vedremo cosa altro, da questo versante, Ugo Chavez riuscirà a consegnare all’umanità, nel corso della storia sua e del suo Paese.
“Sono per un socialismo patriottico e democratico che deve essere umanista e deve mettere gli esseri umani e non le macchine in condizioni di superiorità nei confronti di tutto e di tutti”.
DALLA CRONACA ALLA STORIA
Nasce a Saboneta, il 28 luglio 1954, da una famiglia numerosa e talmente povera, che il padre, un maestro elementare in una zona di campagna, non potendo mantenere una bocca in più da sfamare, lo affidò alle cure di sua madre, che viveva da sola in una capanna di paglia e fango.
Ma la vera casa, com’egli stesso ripete, di Ugo Chaves diviene ben presto l’esercito, dove cresce, studia, fa carriera. Si laurea così in tecniche militari prima e in storia moderna poi, nel segno e nel mito di Simon Bolivar.
Matura alla luce ideale del suo Maestro le idee di giustizia sociale e di vera libertà che comincia a diffondere fra i suoi commilitoni, sempre più restii, per esempio, a intervenire quali forze di polizia in azioni di repressione della protesta polare.
Ha trenta anni, quando fonda il primo raggruppamento diciamo così ideologico, che negli anni seguenti dai suoi coetanei riesce ad allargare ad ampi settori delle forze armate.
Ha trentotto anni, quando, il 14 febbraio 1992, con quelle forze tenta il colpo di stato militare. Ma il golpe fallisce ed egli viene scoperto e arrestato.
Si fa due anni di carcere, prima di essere rimesso in libertà per una sopravvenuta amnistia, ma contemporaneamente viene espulso dall’esercito.
Ciò gli consente di avviare una vasta opera di proselitismo, soprattutto fra le fasce della popolazione più umili, con il “Movimento per la quinta repubblica” da lui fondato, che si propone di ridisegnare lo Stato alla luce della lotta alla corruzione, alle ingiustizie, alla povertà, in una nuova forma di democrazia, “partecipativa” e “protagonista”, che abbia nel popolo il suo attore principale, finalmente reso artefice delle scelte decisive.
Il 6 aprile 1999 vince le elezioni presidenziali, con oltre il 56% dei voti.
E’ importante sottolineare il fatto che viene eletto con tutti i crismi della democrazia ufficiale, come pure con tutti i crismi della democrazia ufficiale si svolgono i passaggi successivi del suo potere.
Chiede al popolo qualche mese dopo l’autorizzazione a modificare la costituzione: lo ottiene con l’ottanta per cento dei consensi.
Alle elezioni dell’assemblea costituente, il suo partito sale al 60% dei voti, quelli a lui collegati ottengono 120 seggi su 131.
Agli inizi del 2000, la nuova costituzione viene approvata da un apposito referendum.
Per effetto dell’entrata in vigore della nuova carta costituzionale, di cui viene distribuita una copia a ogni venezuelano, si indicono anche nuove elezioni presidenziali, che Chavez rivince, sempre con oltre il 59% dei voti.
Può iniziare così, passando ad attuare le norme della Costituzione, la sua “rivoluzione tranquilla”, che però agita e non poco i detentori dei grandi e vecchi privilegi, le oligarchie economiche e politiche.
Contro di lui si organizzano in primo luogo i latifondisti, il 10% della popolazione che detiene l’ 80% delle terre, gli industriali, gli asserviti a vario titolo alle multinazionali.
Un primo tentativo si registra con la “serrata” delle fabbriche da parte degli industriali nel dicembre 2001, in una specie di sciopero imposto, che però fallisce ben presto.
Più serio il tentativo del febbraio 2002, ordito da dirigenti e impiegati della compagnia petrolifera nazionale, che tentano di resistere alla trasformazione dell’azienda voluta dal regime in funzione della ridistribuzione degli utili in funzione sociale, in difesa del modello neocapitalistico e dei propri personali interessi.
Preparano nei mesi seguenti, con l’appoggio delle gerarchie della chiesa cattolica, di settori marginali delle forze armate, in contatto però con i militari statunitensi, nonché dei principali giornali e stazioni televisive private, uno sciopero generale di ventiquattro ore.
Il giorno 11 aprile si mosse a Caracas un corteo di centomila persone, che ben presto fu diretto dagli organizzatori verso e contro il palazzo presidenziale, a sua volta presidiato dai sostenitori di Chavez.
Intorno a mezzogiorno, sicari prezzolati cominciarono a sparare sulla folla, con lo scopo di avvelenare ulteriormente la situazione, già di per sé esplosiva.
La giornata si conclude con la decisione di Chavez di consegnarsi agli insorti, al fine di evitare uno scontro armato, che avrebbe assunto dimensioni tragiche.
Viene rinchiuso nel presidio militare di Fuerte Tiuna, mentre in poche ore seicentomila suoi sostenitori si radunano per chiederne la liberazione; poi nella notte viene portato segretamente sull’isola di La Torcila in una base della marina.
Il giorno dopo il presidente della Fedecamera, Carmona Estanga, si autoproclama presidente e annuncia il ritorno in vigore della vecchia costituzione. Incredibilmente, in tempo reale gli Stati Uniti riconoscono il nuovo governo.
Ma il popolo insorge. In due giorni sei milioni di Venezuelani manifestano, anche violentemente, a suo favore e chiedono il suo ritorno a potere.
I militari golpisti si contano e scoprono in pochi, vertici di ufficiali isolati dai quadri e dalla base, rimasta fedele al Presidente esautorato nell’illegalità.
Dal canto loro, al terzo giorno, le dimostrazioni popolari assumono dimensioni impressionanti.
La situazione diventa insostenibile.
Tre elicotteri volano a La Torcila e riportano Ugo Chavez nella residenza presidenziale.
I disordini cessano di colpo.
“La rivoluzione tranquilla” può continuare.
“Al di là della crisi economica, il Venezuela stava attraversando una crisi morale ed etica, dovuta alla mancanza di sensibilità sociale dei suoi dirigenti. Ora, la democrazia non è soltanto uguaglianza politica; è anche, anzi soprattutto uguaglianza sociale, economica e culturale. Sono questi gli obiettivi della mia rivoluzione.
Voglio essere il presidente dei poveri.
Ma noi dobbiamo apprendere la lezione dei fallimenti di altre rivoluzioni, che, pur affermando di porsi questi obiettivi, li hanno traditi, oppure li hanno perseguiti liquidando la democrazia.
Noi vogliamo passare dalla democrazia rappresentativa, che non deve essere necessariamente disprezzata, a una democrazia partecipativa, diretta.
Vogliamo chiamare il popolo a intervenire sempre più a tutti i livelli del potere, per rendere più efficace l’opposizione a ogni violazione dei diritti umani. Noi dobbiamo cercare il punto di equilibrio tra il mercato, lo stato e la società. Ciò che occorre è far convergere la mano invisibile del mercato e quella visibile dello stato in uno spazio economico all’interno del quale il mercato possa esistere quanto più è possibile, e lo stato per quanto è necessario”.
GLI SVILUPPI
Ai primi di dicembre 2006, nuova legittimazione popolare per Hugo Chavez, che rivince le elezioni presidenziali, svoltesi sotto il controllo degli osservatori internazionali, nessuno dei quali ha avuto alcunché da eccepire sul metodo democratico, con un vero e proprio trionfo nei quartieri popolari, comunque con un margine ampio, netto: circa tre milioni di voti e il 20% di differenza.
“Abbiamo dato un’altra lezione di dignità agli imperialisti, questa è un’altra sconfitta di Bush.
E’ l’inizio di una nuova era, una nuova epoca che avrà come linea strategica l’espansione della rivoluzione bolivariana e della democrazia popolare verso il socialismo venezuelano.
Il nostro è un socialismo originale, cristiano, indigeno e boliariano.
Vogliamo costruire un sistema che sia segnato da uguaglianza, libertà e giustizia, di cui nessuno deve avere paura”.
Ai primi di gennaio, insediatosi ufficialmente per la terza volta alla guida del Venezuela, Chavez annuncia leggi “chavezissime”.
Così, i settori dell’energia e delle telecomunicazioni vengo completamente nazionalizzati.
Tanto per ripassare la storia, quel che fece agli inizi degli anni Sessanta il primo governo di centro – sinistra in Italia.
Tanto per ricordare l’attualità, dopo un ventennio le privatizzazioni hanno ovunque e ancor di più in Italia completamente fallito: i servizi sono peggiorati, i costi per i cittadini aumentati a dismisura.
Una scelta storica, quella di Chavez, dunque, a livello planetario, una vera e propria sfida, ai consolidati interessi del nuovo capitalismo selvaggio, della globalizzazione del liberismo economico e finanziario.
Ciliegina sulla torta, i prezzi imposti per i generi di prima necessità, equiparati per tutti i rivenditori a quelli praticati negli empori statali popolari: una forma concreta di giustizia sociale.
Sul fronte estero, si rivela un sostanziale fallimento la visita del presidente americano Bush, alla ricerca di un improbabile recupero di consensi nel continente sud – americano, quasi totalmente, con la sola eccezione della Colombia, diventato più o meno ostile agli Usa.
Danno invece lustro e consenso a Chavez gli accordi che egli stipula direttamente con le amministrazioni comunali di città come Londra e Firenze: petrolio a tariffe ridotte, per abbassare i prezzi dei trasporti pubblici, in cambio di risorse umane qualificate che insegnino a governare le città con le più moderne e avanzate soluzioni possibili, in tema di smaltimento rifiuti, traffico e tutela dell’ambiente: una vittoria, di sostanza e di immagine, che per Hugo Chavez vale all’estero quanto quella ottenuta democraticamente con le elezioni presidenziali interne
Di Hugo Chavez hanno ormai paura soltanto le multinazionali dell’energia e delle armi, e l’alta finanza internazionale, coi i regimi liberal – capitalisti che da essa sono sostenuti.
RIVOLUZIONE CONTINUA
Il primo maggio 2007 è stata una data importante, “un giorno storico”, per Hugo Chave, e il Venezuela.
Sono tornati sotto il controllo della compagnia nazionale Pdvsa anche i pozzi petroliferi della zona dell’ Orinoco, la riserva più grande del mondo, con un accordo con le grandi multinazionali, costrette, loro malgrado, a una semplice quota di minoranza.
“L’imperialismo ha sempre dominato le nostre risorse energetiche. Fino ad oggi gli stranieri hanno estratto il greggio per i loro interessi, pagando tariffe irrisorie.: ma da oggi è finita.
Restituiamo la sovranità nazionale sul petrolio.
Siamo orgogliosi di poter dire che la fase di nazionalizzazione è così conclusa”.
“Sì, certo, in Venezuela c’era il petrolio, un ottimo petrolio, e questo bastava ad arricchire le tasche dei pochi, a scapito dei tanti.
La massa restava chiusa nelle baracche, privata dell’istruzione, analfabeta, slegata da ogni decisione del potere.
Era trattata con fastidio, in modo razzista, perché indigena, creola, negra: erano nati poveri e tali dovevano rimanere”.
Chavz è oramai un modello consolidato, anzi,“il motore sudamericano”, come lo definisce il regista Fernado Solanas, il regista argentino che nel suo nome si candida alla elezioni del suo Paese.
Fra l’altro, prosegue nella rivoluzione socialista e anzi l’articola con nuove iniziative, come la “computadora socialista”. Un programma che si propone di costruire strumenti informatici autarchici, con l’ausilio di ingeneri cinesi e venezuelani, e di diffonderli diffusa gratis nelle scuole, con lo slogan: “Un computer bolivariano contro gli Usa!”, e gli obiettivi di diffondere l’alfabetizzazione informatica e sviluppare quindi contemporaneamente sia la cultura popolare, sia la produzione industriale.
Oppure, ancora, il “venezuela movil”, il piano di finanziamenti popolari, di crediti al consumo garantiti dallo Stato, ad un tasso che è la metà dell’andamento dell’inflazione, grazie al quale, per esempio, trecentocinquantamila venezuelani che ne erano privi hanno potuto permettersi l’acquisto di un’automobile.
La nuova costituzione, poi, Divulgata e spiegata al popolo. E poi la richiesta di modificarla ulteriormente, attraverso un nuovo referendum, il 2 dicembre 2007, per prevedere la rielezione indefinita del presidente, ma pure – e questo non l’aveva segnalato nessuno dei critici e dei perplessi – il “referendum revocatorio”, cioè lo strumento che in qualunque momento l’opposizione può utilizzare per chiedere di destituire il presidente in carica, oltre a tutta un’ altra serie di provvedimenti, fra cui l’abolizione della autonomia della banca centrale e la possibilità di sottoporre a censura i media in caso di emergenza.
Contrariamente alle attese, la richiesta viene respinta, con il 51% dei no: una sconfitta per Chaves, che comunque, per quanto non possa più essere rieletto, resterà al potere fino al 2012, e che comunque regala al mondo il più bel commento possibile: “E’ stato un esercizio di democrazia”.
“Stiamo avviando una rivoluzione pacifica. Non abbiamo un solo prigioniero politico, non abbiamo ucciso nessuno, abbiamo proibito il carcere per ragioni politiche. La presunzione di innocenza vale per tutti e qui si rispettano i diritti umani. Non esiste nessun Paese al mondo con maggior libertà di espressione”
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