NORD SUD (OVEST EST) Usi e costumi d’Italia X X X Sex: ETERO/GAY/PROSTITUTE di Un Italiano Vero
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ETERO
A Lecce l’italiano standard “scopare”, “trombare” nell’accezione giovanilistica, si dice abitualmente con un verbo che per i Leccesi è inutile ricordare e per i non Leccesi è meglio non dettagliare, perché stranamente e inopinatamente volgare, ma non nel senso etimologico, ma proprio volgare nel senso di bruttezza.
Pure il nome dell’organo sessuale femminile è volgare-brutto, oltre che strano: le Brigate Rosse non c’entrano evidentemente niente, chissà qual è la derivazione. Strano, pur di difficilissima spiegazione, comunque non gastronomica, perché le margherite e le quattro stagioni non c’azzeccano proprio, però bello, il nome che a Lecce indica l’apparato sessuale maschile, anche perché permette disinvolte allusioni, in cui i Leccesi sono maestri, soprattutto quando parlano con altri, con la particolare cadenza, sulla bontà, sul gusto, se non sulla fragranza, della loro specialità personale.
I Leccesi parlano sesso, pardon, spesso e volentieri di sesso, con compunta ironia, sagace sarcasmo e feroce brillantezza, tipica del loro portato genetico, che si esalta poi nelle allusioni di cui infarciscono i loro discorsi.
Inoltre usano le varianti del verbo “mettere” ( facile capire cosa e dove ) con cui fanno la parafrasi dei verbi scopare/trombare, anche se così “te la metto”, oppure “ni la mise” denotano un inguaribile maschilismo di fondo.
A Torino l’atto etero si dice “ciulare”, che è una specie di adattamento del “fottere” del Regno delle Due Sicilie, con tutta quella gentilezza, debordante nell’ipocrisia, con tutta quella cortesia sconfinata nella falsità, tipicamente sabauda.
A Torino però parlare di sesso, in qualunque tipo di discorso pubblico, viene considerato sconveniente, comprese ogni tipo di anche semplici allusioni.
Se proprio non se ne può fare a meno viene adoperata l’espressione neutra e asettica “fare sesso” mutuata dai film e telefilm americani.
“Andai ensema”, che sarebbe “andare insieme”, è l’espressione tipicamente meneghina: andare insieme a fare che cosa è implicito e non c’è bisogno di dirlo, per quanto a Milano ognuno costruisca sulla sessualità tutta una serie di implicazioni sociali e relativi modi di dire anglofoni, che vuole abbinare ed esprimere a tutti i costi, mettendoci così sempre, per esempio, del “fashion”, degli aperitivi after hour, della location della situazione e così via.
Nel resto dell’antico Lombardo – Veneto, specie la zona di Brescia, il termine, di derivazione veneta, appunto, nella fattispecie è “ciapare”, che originariamente significava “pigliare/prendere” ( stupefacente: l’esatto contrario del leccese “mettere”): “te pià ciapà?!?” è la frase più usata, come domanda dalla risposta scontata, quindi inutile: una constatazione, insomma, più che un interrogativo.
La cosa più piacevole, insomma, perfettamente connaturata ai disegni ancestrali della natura, che l’abbinava alla procreazione e dunque al perpetuarsi della specie, anche al Nord: solo a Napoli dicono che comandare sia meglio che fottere.
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Omosex
A Lecce i gay sono detti “ricchioni”, come un po’ in tutto il Sud Italia; a differenza del Sud Italia, però, il termine non ha valenza offensiva, o, per meglio dire, è una specie di affettuoso insulto, scevro da significati sessuali, tanto è vero – “Na stu ricchione!- che viene adoperato nei confronti di chiunque compia qualcosa di strano, o sbagliato, o fastidioso.
A Lecce hanno dato poi la cittadinanza onoraria a un regista gay, che, in preda alle sue ossessioni sessuali, ha dipinto la città come un piccolo paese d’anteguerra, vittima di pregiudizi e malvagità.
Niente di più sbagliato e falso: non è per niente vero.
Nella realtà odierna, i Leccesi dei gay, i quali, dal canto loro, né nascondono, né ostentano, come un po’ degli esponenti di tutte le altre categorie sociali, semplicemente se ne fottono, anzi, se ne strafottono: sono cazzi loro, pensano, è proprio il caso di dirlo, e amen.
A Torino sono pieni di “Gay”, nel senso che ( pronuncia: come è scritto, non l’inglese “ghei”) è uno dei cognomi più diffusi in città, come i “Ferrero” o i “Pautasso”.
L’omosessualità è vissuta in maniera coperta e sofferta, più che altro in una solitudine disperata e disperante, anche e soprattutto nelle occasionali compagnie.
Il termine “omosessuale” nel dialetto piemontese è tutto un programma: si dice “cupio”, che rimanda subito al biblico “cupio dissolvi”.
A Milano l’omosessuale ( il romano “frocio”, il palermitano “arruso”, termini a forte connotazione negativa e spregiativa ) viene definito con una colta figura retorica, la sineddoche, per la precisione, cioè l’indicare una parte per il tutto: “culatone”, si dice, e basta e avanza a esprimere bene il concetto.
Qui i gay sono spesso una lobby potente, condizionante, che al loro interno e al loro esterno – vedi i settori lavorativi della moda, o della comunicazione – adoperano i criteri uguali e contrari degli etero nel resto d’Italia, cioè gli stessi condizionamenti discriminatori, sovente ricattatori, nei confronti di chi culatone non è.
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PROSTITUTE
Fino a qualche decennio fa, a Lecce, città tradizionale, profondamente cattolica, ma non bigotta, intimamente perbenista e sostanzialmente garbata, la prostituzione svolgeva una duplice, precisa funzione sociale: di educazione sessuale, per i minori, e di valvola di sfogo salva-matrimoni per gli adulti.
C’erano poche, sempre discrete, presenze di lavoratrici autoctone e autonome nelle ore serali, isolate in zone periferiche; il grosso dell’attività veniva esercitata in un’apposita zona della città, detta “La Chiesa greca”, che era una specie di quartiere in scala ridotta a luci rosse, dove le prostitute, alcune vere e proprie navi scuola, educatrici sessuali per intere generazioni di giovanissimi marinai al battesimo del mare, o riservate presenze fisse extraconiugali, sovente pressoché istituzionalizzate, svolgevano in tutta tranquillità, senza violenze, o volgarità di sorta, la loro professione, a prezzi proprio modici.
I frequentatori adulti della Chiesa greca erano tranquilli per la loro riservatezza, nel senso che tanto potevano essere visti e riconosciuti solamente da chi poteva essere là per la stessa, unica, ragione e quindi non aveva nessunissima ragione a divulgare l’eventuale riconoscimento; al contrario, per i minori ogni visita nelle alcove del piacere, di solito stanze che affacciavano direttamente sulle stradine, con il lettone in evidenza fin da fuori, tanto per levare ogni dubbio ai passanti, era un’occasione memorabile per racconti estenuanti delle epiche imprese, che venivano ripetute e vivisezionate nei racconti ai coetanei per mesi e mesi interi, fino a una nuova prodezza di qualcuno del gruppo.
Oggi a Lecce, dopo pochi decenni, non esiste più niente di tutto questo, né nella geografia, né nella sociologia.
La prostituzione, completamente omologata, cioè globalizzata, viene attualmente esercitata da qualche decina di “trasfertiste” straniere in appartamenti anonimi, apparentemente uguali agli altri, disseminati a macchia di leopardo sul territorio cittadino; i clienti vengono reclutati tramite annunci espliciti, a volte pure di una comicità esilarante, per quanto involontaria, sul giornale locale, “Il quotidiano”, tanto per non fare nomi.
Annunci, modalità, professioniste sono uguali a quelli e quelle di tutto il resto d’Italia, dal sud, al nord, senza distinzione alcuna: e se non è il Quotidiano di Lecce, è il Messaggero, o il Giorno, ma di quello, sempre uguale, si tratta.
Fino a due anni fa, resisteva a Lecce una mini zona di prostituzione sulla strada, in una via laterale rispetto alla stazione ferroviaria, in orari notturni; poi polemiche e casini vari l’hanno spostata quasi del tutto a qualche centinaio di metri più avanti, sempre lungo i binari, ma in aperta e deserta periferia e però pure ridotta a pochissime occasioni, fra l’altro soltanto con orario serale, e alquanto disturbata.
Pure la strada di campagna sulla statale Lecce-Gallipoli, a chilometri dalla città, è stata oggetto di restrizioni di recente e sopravvive solamente per poche presenze di ragazze negre dalla mattina al pomeriggio.
Nelle grandi città del Nord, la prostituzione, che oramai non ha più connotazione sociologica alcuna, se non nel trionfo della volgarità e della mercificazione, è dilagante, a tutte le ore del giorno e della notte.
Annunci sui giornali a parte, che pure sono massicci e, come detto, uguali a tutto il resto d’Italia, la strada rimane la modalità di esercizio dominante. Soprattutto dalle 21 all’alba, ci sono presenze di prostitute straniere, di ogni etnia, per ogni specialità, per decine e decine di chilometri: un “puttan tour” completo, che voglia rendersi conto del fenomeno in maniera esaustiva, può durare ore e ore.
A Milano le italiane, con la qualifica di ragazze – immagine, lo fanno solamente con le agenzie di escort, a prezzi stratosferici, o nelle discoteche, nei privee dei festini a base di coca, per ricchi scemi e anzi idioti.
A Torino l’ultimo grido sono i saloni dei massaggi gestiti dai cinesi, anzi, dalle cinesi, le quali evidentemente sanno sopperire alla discutibile avvenenza con altre capacità tecniche. Ne sono spuntati a decine in ogni zona della città e sulla natura dei massaggi ivi praticati non ci sono dubbi, con tanto tariffario scritto esposto fuori, extra e specialità della casa a parte, come nei migliori ristoranti direttamente a voce al cliente coccolato e anzi venerato: dopo il tessile, la ristorazione e le Olimpiadi, un altro, clamoroso successo dell’economia rampante cinese all’estero. ( continua )
Category: Costume e società