UNA LETTERA DA TARANTO del nostro direttore
Si viaggia nello spazio, certo, ma ci sono altre dimensioni meno evidenti, ma più profonde in cui a volte ci si muove.
Da Lecce e a Taranto ci sono nemmeno ottanta chilometri, per quanto amplificati da un itinerario rimasto assurdo, che ne dilata la percorrenza, o da un altro più veloce, che però ne aumenta la portata; ma nella mia geografia dell’anima, per arrivarci è necessario percorrere a ritroso distanze che mi sembravano infinite e quindi impossibili, fino a quando, ieri, sono riuscito a colmarle.
Ne ho riportato comunque una grande fatica, un vero e proprio malessere fisico, perché quando si viaggia nel tempo se ne ricava una strana sensazione di spaesamento, come il così detto jet lag di un fuso orario estremo, e quando poi, oltre che nel tempo, pure nella memoria, si aprono inevitabilmente i graffi e le ferite che non si cicatrizzano mai, per questo riposte nell’intimo più profondo, ma che riprendono a sanguinare, appena, in un modo o nell’altro, le si ritorna a sfiorare.
Affranto, spossato, ho viaggiato nel tempo e nella memoria, ieri, piuttosto che nello spazio, a Taranto, città bella e sfortunata e anziché al presente, ho pensato al futuro.
Ho visto stormi di rondini fra le campagne del Salento. Nei paesi lungo la strada ho visto anche gli anziani felici.
Però adesso andiamo dal “privato” al “pubblico”, dal “personale” al “politico”.
Ho ritrovato, nell’ordine, rimasti pressoché uguali dopo quaranta anni: il segnale di indicazione stradale tutto rattrappito con le lettere fatte a puntini al vero ingresso della città; il Salinella; il Ponte Punta Penna Pizzuta; il Ponte Girevole unico al mondo; i presidi della Marina Militare; la birra Raffo e l’amaro San Marzano; i due mari, uno aperto e immenso, l’altro placido e concluso; il vento fortissimo che scuote quel che rimane ancora, specie in cima, delle alte palme.
Ho trovato invece aggravato un degrado che non è una maledizione, una condanna biblica, una nemesi divina, bensì l’accumulo dell’incuria degli uomini che a vario titolo, ma con uguali responsabilità, avrebbero dovuto e dovrebbero occuparsene, e non l’hanno fatto, né lo fanno, in tutt’altre faccende, dalle beghe di partito, ai privilegi della casta, affaccendati.
Le buche sulle strade, tanto per fare un esempio, sono quelle di un percorso di guerra, ma questo è niente, in confronto alla città vecchia, che si estende appena passato il Ponte Girevole.
Sembra ancora il 1950, gli Americani sono appena andati via, hanno lasciato l’economia di sopravvivenza, le palazzine tetre ammaccate dai bombardamenti, il ricordo della nostra Pearl Harbor del 1940, e oramai sono passati decenni.
Però ancora adesso, oggi più di ieri, le case sono nere, “sgarrupate”, invivibili. Soltanto un cartello di un’agenzia immobiliare, con su scritto “vendesi”, che si regge per miracolo sui calcinacci di un balcone del primo piano, fra le finestre diroccate e le persiane a pezzi, riesce a far sorridere, sia pure solo per un attimo.
Poi, ho avuto paura. Nei volti degli astanti sui marciapiedi che costeggia il percorso automobilistico a senso unico, davanti alle palazzine perdute, ho letto la rabbia, in quelli dei ragazzini che scarrozzavano sui loro motorini di fortuna controsenso in rapide gincane, la disperazione.
Quanto già si profilava davanti il disastro del quartiere Tamburi e il mostro dell’ Ilva, che questa città ha corrotto in tutte le sfere di responsabilità, dai politici, ai sindacalisti, dai preti, ai giornalisti, per poter allargare il profitto di una sola famiglia, sulla pelle delle famiglie tarantine; che questa città ha condannato all’atto finale del degrado supremo; che pesa come la nostra Hiroshima, io ho avuto una paura irresistibile, che mi ha impedito di procedere oltre, e sono rapidamente tornato indietro, non vedendo l’ora di riguadagnare il Ponte Girevole.
Io che da cronista andavo più o meno tranquillamente a Scampia a Napoli, oppure senza patemi eccessivi giravo a Torino nel peggiore San Salvario, io a Taranto alla città vecchia non sono riuscito a rimanere più di tanto.
Mi ha consolato più tardi la lettura del vecchio e glorioso “Corriere del giorno”, che, ho appurato, è vivo e lotta insieme a noi, certo, grazie ai finanziamenti pubblici, va bene, rattrappito e malconcio in cooperativa di fortuna, ma esiste e resiste. Come può, denuncia.
Ho appreso che il giorno prima c’era stato un convegno, una delle solite tavole quadrate dei blà-blà-blà, un altro famigerato “tavolo” di concertazione con cui in Italia si risolvono i problemi soltanto a parole, questo appunto sul risanamento ambientale e sull’importanza anche economica della cultura, organizzato da alcuni imprenditori di buona volontà, in collaborazione proprio con il quotidiano locale, che giustamente ne riferiva in dettaglio su tre pagine, per cui si era scomodato pure il ministro sinistro Massimo Bray, in cui però la sinistra amministrazione comunale era rimasta in silenzio assordante, e il sindaco si era fatto rappresentare da un oscuro funzionario.
Eppure il museo e unico al mondo c’è, il Museo della Magna Grecia, o “Marta”, come l’hanno chiamato adesso, dopo averlo riordinato e organizzato. ed è uno splendore. Gioielli, statue, masserizie e suppellettili, le maschere, dai, del teatro, tali e quali, dopo due millenni. Una meraviglia, tout court, sottolineo, unica al mondo.
La struttura è accogliente, la visita favorita e assistita da personale gentile e competente, lo spettacolo unico e ineguagliabile. Certo, manca ancora una parte intera, fra l’altro proprio quella attinente la città originaria dei coloni, che sfidò la potenza imperiale e ne fu sottomessa, per quanto ci vorranno ancora soltanto pochi mesi, così assicurano, per avere il percorso completo, ma quanto c’è già basta e avanza per ricavarne una ricchezza anche economica per la collettività locale intera, per smantellare l’intera Ilva e dare pane senza morte alla comunità su tutti e due i mari. Se fosse da un’altra parte, e non a Taranto bella e sfortunata, città martire dell’egoismo del capitalismo e dei politici camerieri degli affaristi.
Ieri, in una tranquilla mattinata domenicale, c’erano due visitatori.
Così l’incuria e l’incapacità dei politici, che pensano a ben altro, diventa una maledizione, una condanna biblica, una nemesi divina.
Andando via, due volti nella memoria del telefonino.
La giovane signora, che io, che do sempre a tutti, i nomi più strampalati e mai il loro giusto, ho battezzato Marta, che sta (a Taranto e provincia, ognuno e ogni cosa sempre e comunque sta) alla biglietteria del Museo: sorridente, partecipe, preparatissima, accogliente, competente, innamorata del suo lavoro e della sua città.
La signora anziana – appellata invece Paola -che passava, fuori, davanti al Museo, per piazza Garibaldi, per andare a messa con il suo decoro borghese del trucco garbato e del cappotto buono di pelliccia della festa, evidentemente sopravvissuta alla scomparsa del ceto medio, garbato, onesto, alacre e fattivo: sapeva di orari e parcheggi, di accoglienza e ospitalità, e che alla fine del breve e occasionale colloquio ha augurato “buona visita” e ha regalato un sorriso, per quanto aggravato di fatica, ma sincero.
Ciao Marta. Ciao Paola. Non mollate. Credo quia absurdum, credo in Taranto e nella sua impossibile rinascita, che come quella dell’Italia intera passa soltanto attraverso il vostro garbo, la vostra sensibilità, e i vostri sorrisi che sono l’ultima speranza per tutti noi.
Giuseppe Puppo
Category: Costume e società