E’ APPENA USCITO “In the name of”, IL NUOVO ALBUM DEI MAVERIK PERSONA. ECCO COSA C’E’ DENTRO. E CHI C’E’ DIETRO

| 1 Novembre 2024 | 0 Comments

di Roberto Molle ______

Cambridge (Regno Unito), primi anni Novanta. A un certo punto bussano alla porta. L’uomo apre e si trova di fronte un ragazzo che gli chiede: “mister Barrett?”; gli sguardi si incrociano per qualche secondo, il ragazzo ha un flash, proiettate nella mente si susseguono immagini che la memoria ha accumulato negli anni e ora rimanda indietro come impazzita: le copertine di “The Piper At The Gates Of Down” e di “A Saucerful Of Secrets” dei Pink Floyd, quella ipnotica di “The Madcap Laughs” e quella un po’ inquietante di “Opel”, sovrapposte al volto stralunato dell’uomo che ha di fronte, visto tante volte sulle riviste musicali e sui tabloid.

In quegli attimi, il ragazzo avrebbe voluto dire tante cose a quel mito che si era fatto palpabile; tra le altre, anche quella di aver fondato una band nella quale ha riversato la sua grande passione per quei dischi e il suo autore: mister Roger “Syd” Barrett.

Un “no” secco, tra spavento, sorpresa e indignazione, lacera l’immagine affascinante e tenebrosa di Syd che il ragazzo aveva custodito fino a quel momento, rimandandogli quella reale di un volto completamente calvo, le ciglia rasate, lo sguardo perso.

Syd Barrett è il Diamante Pazzo (di Shine On You Crazy Diamond), il ragazzo è Amerigo Verardi, che nel giro di qualche anno diventerà uno dei musicisti e produttori più influente della scena alternativa italiana.

Brindisi è stato il punto di partenza, poi per Amerigo ci saranno Bologna, il DAMS, gli incendiari anni ’80 e “The blue sunshine” dei Glove (che all’epoca fece battere molti cuori, incluso quello dello scrivente).

L’idea di combinare insieme post-punk e la psichedelia dei Sixties si concretizza con gli Allison Run (due Ep e un album, acerbi e ficcanti al punto giusto) ma è solo l’inizio, a seguire, altre band e altre avventure. Sul filo di una creatività che si determina e si rafforza proiettando Amerigo verso territori inesplorati, si distingue la sua voce delicata e ribelle. Dopo gli Allison Run, l’altra creatura si chiamerà The Betty’s Blues: un disco all’attivo dove chitarre lisergiche aprono varchi puntellati da rigurgiti country-punk.

Nei primi anni Novanta un disco a proprio nome (“Morgan”) e una nuova band: i Lula. La scelta di cantare in italiano e l’incontro con Francesco Virlinzi boss della Cyclope Records, con la quale i Lula registreranno “Da dentro” (l’album che segnerà per il musicista una sorta di linea d’ombra), lo proietteranno verso mete dove la sperimentazione e l’innovazione saranno urgenze non da poco conto.

Poi, vorticosamente altre storie: Lotus e The Freex quando gli anni zero sono ormai realtà. L’incontro con Marco Ancona (altro outsider della scena alt-rock salentina) frutta “Il diavolo sta nei dettagli”, un album con mescolanze di suoni acustici e sintetici a fare da sfondo alle voci dei due che si legano a testi profondi. Il tempo di un disco e di nuovo in corsa; come ormai appare chiaro, Amerigo sembra voler fare solo la musica che sente dentro, senza cedere alle sirene di nessun mainstream.

La critica lo acclama ma le luci della ribalta non gli interesseranno mai. Al musicista sembra importi di più lavorare a progetti che lo facciano sentire in armonia con se stesso: scrivere musica, sperimentare, ripartire con nuovi progetti.

Parallelamente all’impegno come autore inizia a cimentarsi con la produzione di alcuni album di nuovi artisti. Amerigo Verardi ha contribuito alla realizzazione di due album considerati miliari nella discografia italiana degli ultimi decenni: “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei Baustelle e “La verità sul tennis” dei Virginiana Miller, oltre a diverse altre produzioni (tra i quali quelle dei Sonica, di Valentina Gravili e dei Tecnospiri).

Nel 2016 ancora un album da solista: “Hippie dixit” e nel 2021 il capolavoro di “Un sogno di Maila” (forse l’album più maturo nella sua discografia).

Fin qui un’esperienza lunga quarant’anni. Qualsiasi altro artista a quel punto forse avrebbe tirato le somme, magari anche solo per una vena creativa ormai andata esaurita, ma non è il caso di Amerigo, in continua evoluzione con mille altre cose da dire, con suoni e incastri da sperimentare e nuovi coinvolgimenti da realizzare… anche se, nonostante tutto, la sua dimensione rimarrà quella di musicista di culto, con un pubblico di fan disseminato tra l’Italia e l’Europa che lo apprezza e lo stima profondamente.

Nel marzo del 2024 inizia a circolare la voce di un nuovo progetto. Arriva un altro sodalizio e un nuovo nome: Maverick Persona. In più, l’approdo alla Nos Records, la giovane etichetta indipendente pugliese diventata un punto di riferimento per la scena alternativa italiana.

Maverick Persona sono Amerigo e il giovane producer Deje (Matteo D’Astore), uno che sin dalla tenera età ha iniziato a pestare tamburi per approdare poi, alla creazione e manipolazione di suoni in vario ambito (dal jazz più mistico, all’ambient, al rock, fino alla classica e all’hip hop, in un contesto di ampia sperimentazione).

La collaborazione con Deje confluisce dentro un album dal titolo “What tomorrow?”.

È un mondo “altro” quello che si rivela, tutto il passato musicale di Amerigo, le esperienze umane e artistiche, il rock e il pop psichedelico frullati dentro una macchina dei suoni insieme alle passioni e alle visioni mistiche disseminate lungo un percorso cifrato. “What tomorrow?” è splendido caleidoscopio di suoni, abbraccio caldo di melodie e armonizzazioni, e ancora, oscurità che si illumina a strati sul canto carismatico di Amerigo quando appaiono fantasmi gentili a dargli man forte: l’Andy Partridge che non amava molto salire sui palchi e il Robyn Hitchcock dalle camicie psichedeliche post Soft-Boys, e dietro, liberato da ogni angoscia, Syd redivivo, a sorridergli.

“What tomorrow?” è una musical-box con dentro tutti i giocattoli vintage di Amerigo e i “rumori” addomesticati dai software di Deje. Groviglio di suoni, parole e suggestioni. Un posto dove poter raccogliersi e meditare.

Quando la fiammata sembrava spegnersi, a far vibrare l’aura di Maverick Persona, inaspettata, arriva l’altra faccia della stessa medaglia. Se “What tomorrow?” uscito in primavera potrebbe essere considerato la versione bright di un sentire, inevitabilmente, pubblicato a distanza di pochi mesi (esce ufficialmente oggi), “In the name of” ne è la facciata dark.

“In the name of” è un disco notturno, camaleontico, sconsigliato ad ascoltatori superficiali, con un respiro ambient poggiato su ritmi tribali innestati a germogli di jazz. Il disco vive di afflati raccolti sui prati sempreverdi del rock e si nutre di poesia soffusa. Creato da suonatori viaggianti dentro utopie replicate su frequenze cortissime, per poter raggiungere chiunque.

Maverick Persona crea suggestioni oniriche, mandando segnali decriptati da un sound-system che avanza lentamente rilasciando codici di accesso a sliding doors pronte a bloccarti fuori se non entri in tempo.

In questi giorni diverse recensioni (alcune dalle Germania, dal Belgio e dall’Olanda) hanno tirato in ballo diversi nomi dal rockstar-system per questo disco: da David Bowie ai Triffids, dai King Crimson ai dEUS, fino ai Legendary Pink Dots, accostandoli ai suoi autori per influenze, rimandi, evocazioni.

Se si va a cercare tra le sue pieghe e si guarda a fondo attraverso le sue filigrane, volendo si possono scorgere anche figure aliene suonare sinfonie da altri mondi; ma al di là di tutto, credo vada riconosciuto ad Amerigo e Deje il merito di aver creato un linguaggio nuovo, multiforme, che attinge a mille imput sonori e a infinite interazioni visive.

“In the name of” è fatto da undici meraviglie sospese, accordate dentro le acque amniotiche del tempo, dove ogni vibrazione trasmuta in suono: reminiscenze di melodie, latrati di cani, soliloqui ancestrali, synth impazziti, chitarre smorzate sul nascere, brandelli dissanguati di popular music, ombre proiettate su muri inesistenti, la voce trasfigurato di Amerigo… tutto suonato e crioconservato per distopie prossime venture.

È come in “What tomorrow?”, solo con più oscurità. “In the name of” è un viaggio, un racconto di frammenti, un concept allegorico fuori tempo massimo come un figlio nato da genitori troppo in là negli anni, o come un dolente punto scolpito nella coscienza.

Soprattutto, è musica viva che stimola a sopravvivere dentro un mondo che sembra aver smarrito ogni prospettiva oltre l’orizzonte.

Category: Cultura

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