LA SORPRENDENTE SCOPERTA DI TOMMASO FIORE DI UNA LECCE CITTA’ APPASSIONATA DI ARTE E..DI AMORE
di Raffaele Polo ______
La mostra “A lezione di Libertà. Tommaso Fiore, umanista e meridionalista, tra etica e politica”, costituisce il risultato di una complessa e lunga attività di ricerca effettuata dall’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea (IPSAIC), e realizzata in collaborazione con il Consiglio regionale della Puglia e la sua biblioteca Teca del Mediterraneo.
La mostra è stata concepita per essere itinerante, per raggiungere un pubblico più vasto e far conoscere a tanti cittadini gli importanti insegnamenti che ne derivano.
Dopo essere stata ospitata a Bari, prima nel Palazzo del Consiglio regionale e poi nella Cittadella della Cultura, Biblioteca Nazionale e Archivio di Stato, la mostra è giunta a Lecce negli spazi della Biblioteca Bernardini.
Ricca di documenti e fotografie, la mostra ripercorre i temi cari a Tommaso Fiore, nella sua vita politica e letteraria, sempre finalizzata ad esprimere una accorata partecipazione ai sacrifici, alle continue sofferenze cui erano sottoposte le famiglie più povere, più sfruttate che abitavano una terra crudele e poco generosa.
Tommaso Fiore è strettamente legato alle lotte agrarie ma soprattutto alle condizioni dei più poveri, che, con i suoi scritti, fa emergere in maniera efficace e sintomatica. Basta leggere un brano tratto da una delle cinque lettere che formano il suo ‘Un popolo di formiche’, per rendersene conto.
Ma, dei numerosi scritti di Fiore, ampliamente documentati nella mostra che si tiene alla Biblioteca Bernardini di Lecce, vogliamo ricordare, in particolare, quanto pubblicato bel 1924, in pieno regime fascista: un sussidiario di cultura regionale, pubblicato in due edizioni a distanza di un anno (Arsa Puglia, Palermo 1925; nella seconda mutava il titolo in Puglia laboriosa).
Nel volume, che contiene un notevole materiale folclorico (liriche, proverbi, racconti), la rappresentazione della condizione contadina viene ad assumere un taglio esplicitamente letterario, con un’attenzione alle diverse forme di rappresentazione del mondo proprie del ceto rurale, per certi aspetti simile a quella tendenza emologico-antropologica pienamente delineatasi nelle ricerche di Ernesto De Martino nel secondo dopoguerra.
L’acuta, costante analisi dei fenomini politici e sociali della nostra terra, si sublima con Le sue opere più note: Un popolo di formiche (Laterza 1952, premio Viareggio) e Il Cafone all’inferno (Einaudi 1956). Formiche e formiconi sono simbologie che lo stesso Fiore così spiega:
“Per tornare a noi formiche noi siamo, formiche ci sentiamo, o poco più su, formiconi di Puglia. Ma neppure questo termine l’ho inventato io. Un giorno che c’era stato un comizio nella capitale dei contadini, Andria (aveva parlato Peppino Di Vittorio, con quella umanità che lui solo sentiva) dopo, si andò alla Camera del lavoro e lì ridevano i contadini accennando a me: – È quello delle formiche – E poi additarono l’oratore e gli altri della presidenza: – Quelli sono i re delle formiche – diceva uno, e un altro soggiunse: – Sono formiconi”.
Chi sono i ‘formiconi’? “Sono gli intellettuali che con coerenza efficace gettarono in Puglia le fondamenta di una società moderna, aperta a forme di vita democratica. Sono De Viti De Marco, Salvemini, Modugno, Lucarelli, Carano-Donvito, Fraccacreta, che contribuirono attraverso la loro fedeltà al rinnovamento del Sud, a mutare la realtà circostante”.
Una vivace, colorata e ottimistica descrizione di Lecce è nella lettera di luglio 1926 , che fa parte della raccolta ‘Un popolo di formiche’:
“Lecce, cosa singolare per noi meridionali, non ha affatto contadini; la sua gente perciò rappresenta il fiore di questa eleganza. Altrove ci saranno storici, musicisti, architetti, poeti, politici uguali o maggiori; vivono isolati, a Bari sconosciuti al pubblico dedito al commercio, a Foggia fin anche a se stessi; nessuna delle nostre città s’interessa quanto Lecce alle manifestazioni di arte e di cultura, a tutte le forme di vita dello spirito. Qui la Scuola Artistica è veramente popolare, qui mostre, esposizioni, conferenze di ogni genere e di ogni colore, ricerche scientifiche o storiche o archeologiche, acquisti di musei e di gabinetti, giornali e stampe di carattere locale, qui, incoraggiamento per i giovani, diffuso mecenatismo, spesso riverenza affettuosa pei vecchi. L’arte, come nelle epoche primitive, nasce ancora dal popolo, e qui sono innumerevoli da due secoli i poeti dialettali, più o meno culti, più o meno poeti, ma tutti a contatto della vita delle strade e dele piazze, di cui ritraggono i mille aspetti. L’amore per la musica vi è antico di più che due secoli, nei quali ha dato prove brillanti di sé.
Le arti della cartapesta e della creta, dei santi e dei pupi, sorte due secoli fa, si volsero spontaneamente, verso il ‘48, ai pupazzetti: caricaturisti furono con tutta naturalezza barbieri – mastro Patera e don Alfonso – e giovani passati poi all’arte, quali Bortone, come il Maccagnani, che vi è venuto dalla cartapesta direttamente; e mostrarono malizia e signorilità, e tutta la vita leccese passò ridendo e burlando attraverso queste forme d’arte, in cui di rado si riesce un individuo, quasi mai un popolo. Il ceto togato, poi, è qui veramente eccezionale, e non esistono professionisti, nemmeno graffiacarte, che non discutano, bene o male, di Maccagnani, di Lupiae, del Castello di Carlo V, delle idrie del Museo Provinciale, di Maria d’Enghien, e che non abbiano pretese di buon gusto e di cultura più che professionale, fino a raggiungere, talvolta, vere qualità letterarie. Qualunque teoria, qualunque idea si può venire ad esporla quaggiù, sicuri di trovare un pubblico desideroso d’informarsi, che ascolta sempre con perfetto senso delle convenienze, e discute anche, e come! Così avviene che, da secoli, si aggira rasente piazza S. Oronzo, per via degli Scarpari e alle Quattro Spezierie, dove si tagliano via dei Tribunali e via dei Teatini, una folla sorridente, sicurà di sé, complimentosa, di uomini di studio, di foro e di mondo, in cui è diffuso uno spirito ipercritico, in cui ogni individuo si sforza di dominare e di distruggere l’avversario, e una frase spigliata, un motto arguto valgono più di una bella opera, e chi ha ingegno da vendere lo spende volentieri e si allieta di speranze, e la lotta è vivace, ed il fatto stesso che quello spirito vien censurato come indifferentismo verso la sostanza delle cose, come disistima vicendevole e ipocrisia e improntitudine, e lodato come tolleranza e simpatia, è prova della sua vitalità.
Aggiungono a ciò che, dopo quella di muover la lingua, la maggiore, la più serie occupazione del Leccese è di far l’amore, a venti come a sessant’anni, che le donne vi sono belle ed eleganti e le ragazze trovan modo di concordare col loro piacere il cattolicume tradizionale. In realtà se il bigottismo, che di natura sua è antipolitico, non consentisse la sensualità, non si comprende a che cosa questi disgraziati dovrebbero volgersi, né come sciupare le energie in una obbliosa servitù.”