IL PARCO DELL’OSPEDALE GALATEO, PATRIMONIO DI STORIE E DI BELLEZZA
di Teresa Ciulli ______
A giudicare dalla sua architettura l’Ospedale Galateo fu costruito negli anni ‘30. Opera del ventennio fascista, contemporaneo alle azioni di bonifica delle paludi malariche sul litorale di San Foca e Roca nel versante adriatico e di quelle località fra Nardò e Porto Cesareo, sullo Jonio.
L’Ospedale Galateo era già stato sgombrato quando mi trasferii a Lecce nel 1990. Della sua importanza cominciai a rendermi conto tutte le volte che ci passavo vicino. I muri sufficientemente alti nascondevano il parco ma attraverso il cancello su Viale Rossini, coglievo il valore dell’edificio. Centinaia di posti letto: duecento? Raccoglieva malati di tubercolosi da tutta la provincia ma certamente anche dal brindisino e dalla Calabria jonica.
Nel 1992 conobbi a Maglie il maestro Giovanni Giustiziero, il giocattolaio. Utilizzava il legno delle cassette della frutta per costruire piccoli oggetti colorati, semoventi. Raccontò a me e a Sergio che guardavamo incantati la quantità di quei marchingegni per innescare ilarità, risate, sovrapposti in bilico nel suo microscopico laboratorio, una rimessa sul cortile dove affacciava pure la porta di casa sua a Maglie, di aver cominciato copiando un giocattolo di plastica comprato al mercato.
Un trucco, un espediente per ingannare il Tempo che nel Sanatorio, no, non passa. Il giocattolo in questione è uno scivolo dove scende impettito un buffissimo signore dal naso gigantesco e dalle gambe cortissime. Lo acquistammo insieme a un cigno, anche lui in grado di scendere dalla rampa, una zampa dopo l’altra.
Negli anni successivi ho assistito al sonno del Galateo, così come si assiste al sonno della corte, dei cortigiani, del re della regina e della bella principessa nella favola della Bella Addormentata nel Bosco.
Dal cancello di ingresso ho visto ciclicamente farsi alta l’ortica ho letto parole demenziali sui muri del secondo piano, del terzo. Indizio di una vita notturna nelle stanze di degenza del vecchio ospedale; una vita all’addiaccio non essendoci più le finestre.
Qualche anno fa ho osservato fuori al cancello, un cartello: Colonia Felina. Ho dato una lettura, ho scoperto che la numerosa comunità dei gatti era censita come cittadinanza residente, tutelata. In che modo, non mi sono mai informata. Ma di recente, gatti e cartello, credo siano scomparsi.
Da circa tre anni il Comune ha reso fruibile il Parco dell’ex Sanatorio ai cittadini, ai residenti bipedi e quadrupedi del quartiere Leuca dove l’edificio ancora osserva la vita passare.
Ne è uscito fuori un gioiello di oltre tre ettari ombreggiato da tanti, altissimi vecchi pini: una affiatata comunità di centenni.
Il Parco è una cupola di rami e di pigne. Devo rovesciare la testa completamente verso il cielo per assistere allo spettacolo sorprendente del cielo tutto ricamato a tombolo. Potrei camminare per tutta la sua estensione con la testa per aria facendo affidamento sul fatto che i viali sono ampi che le siepi di bordura sono innocue, oleandri per la maggior parte e pochi, i visitatori. Soprattutto la mattina quando i bambini stanno a scuola. Ma anche il pomeriggio perché studiano o costretti a lezione di inglese di nuoto di tiro con l’arco di catechismo. Beh, sempre meglio che a compulsare il cellulare.
I giochi destinati ai piccoli che il comune ha finanziato sono di fattura nordeuropea: oggetti di design prima di esser giostre e per entrambe le funzioni sono proprio bellissimi. Di facile approccio, innovativi nell’uso. Da urlo.
I viali che si rivolgono verso via Camassa dispongono di supporti utili al potenziamento muscolare, mio figlio un paio di anni fa ci andava ad allenarsi con alcuni compagni approfittando della gioia che scatena il riverbero della luce fra gli aghi di pino ma, soprattutto, della benevolenza degli alberi.
Nel Parco ci sta un Anfiteatro. Fra un gradino e l’altro un terrapieno di erba. D’inverno è carico di suggestione. Sembra che ospiti un pubblico di anime intirizzite, gente che si è aggirata nel Parco tanto tanto tempo fa, sperando di poter presto tornare a casa, guarita, guarito. Quando ero bambina la Tubercolosi era ancora una malattia che si poteva prendere; io sono nata nel 1960 e fino all’inizio degli anni ’80 prima di assumere qualcuno gli veniva chiesta la radiografia al torace. Mi sembra di parlare di cento anni fa, e invece.
Oggi l’Anfiteatro mette in scena l’assenza delle persone, l’assenza di un tempo vuoto. Di tempo per sé stessi, non finalizzato a nulla; tantomeno a far sgranchire le zampe al cane.
Magari andrà meglio quando fra meno di un mese il Comune inaugurerà l’ultimo servizio predisposto per la vita di questo Parco: uno strafigo Bar Pizzeria che sarà aperto fino a una certa ora la sera. Una roba anche questa che mi fa pensare più a una città del Nord Europa che a Lecce. Eppure, tant’è. Qui, in Via Malta, è in corso un’osmosi culturale. Una benedizione che speriamo sia anche benedetta dai nostri comportamenti, volti al rispetto dei luoghi alla cura, alla gratitudine.
Siamo fortunati, io mi sento fortunata, ad avere a disposizione questo grande patrimonio di Storie e di Bellezza che mi viene dal passato a cui il presente, la generazione politica di questi ultimi anni, ha prestato attenzione tanto da investirci intelligenze denaro sforzi, passione civile.
Ogni volta, ogni, che varco il cancello, sono accolta dalla Pineta che respira per me. Da un luogo che secerne, Armonia. Sarà figlia del dolore che ha abitato questi viali per decenni figlia delle guarigioni che sono seguite figlia dei baci che all’epoca furono scambiati di nascosto qui, non lo so.
Certo mi accade sempre, ogni volta che vengo ad arenarmi fra le cinque persone e un cane barboncino vestito di tutto punto, siamo tanto minuscoli paragonati agli altissimi pini, di tirare fuori il cellulare per fotografare. Mi muove un impulso a censire questi splendidi alberi.
Questi monumenti altissimi, queste scale vertiginose al cielo, così vertiginose che nei giorni molto ventosi il parco resta chiuso per motivi di sicurezza.
Ne viene fuori un vero e proprio Safari Fotografico.
Ogni albero è ai miei occhi, una Star. Un individuo con una storia tutta sua, irripetibile. Inconfondibile. Sarà stato il preferito di qualcuna, qualcuno, degli ospiti del Sanatorio molti decenni fa. E lui, l’albero, ancora la ricorda, lo: la voce i capelli il suono delle scarpe mentre gli si avvicinava. Ancora ricorda le sue braccia attorno al tronco suo.
Hai mai abbracciato un albero?
Io, sì. Il Pino ha lo stesso calore mio. La stessa tonica scorza. La stessa volontà del mio di resistere alle intemperie. Ma io non sono bella come lui. Per questo lo fotografo da ogni angolo, ma ad ogni scatto quello invece di rivelarsi, si nasconde. Le fotografie più belle sono quelle che ho fatto senza cellulare, naufragando di stupore fra i suoi rami impervi. Impigliata, innamorata.
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(Teresa Ciulli, Lecce, 30 gennaio 2024, testo e illustrazione per leccecronaca.it)
Category: Costume e società, Cultura