NOVITA’ DISCOGRAFICHE / “Sentieri di sale”, OPERA PRIMA DI PIERVITO NICOLI’

| 29 Luglio 2023 | 0 Comments

di Roberto Molle ______

Tre nomi come indizio per comprendere le strade percorse ininterrottamente da musicisti di più generazioni per affermare la loro musica. Bob Dylan, Beatles, Fabrizio De Andrè.

Dylan, il “menestrello di Duluth” (come ancora oggi viene spesso chiamato) è un cantautore con una discografia sterminata, una voce, un carisma e una capacità di scrittura così potenti da affascinare tantissimi giovani songwriters.

I Beatles, sono stati la rivoluzione più grande non solo per quanto riguarda il rock, ma anche per quello che hanno rappresentato come svolta generazionale; sono stati capaci di trasmettere su frequenze dove migliaia di giovani in tutto il mondo aspettavano di sintonizzarsi.

Infine Fabrizio De Andrè, il cantautore italiano più amato che in un certo periodo della sua carriera ha flirtato con le sonorità e la poetica di Dylan, mantenendo comunque una sua coerenza e creando album di grande bellezza.

Come non cadere nella tentazione della retorica e dell’emulazione di tre icone così grandi?

Per molti artisti americani e inglesi è difficile staccarsi dal “miele sonoro” delle ballate dei Beatles o dalle storie visionarie e laterali di Dylan. Così, per molti nuovi cantautori italiani diventa complicato non cadere nei cliché dell’affabulazione e dell’impostazione vocale di De Andrè.

Detto che il periodo storico non sia poi così prolifico di nuovi cantautori per come li si intendeva verso la fine del secolo scorso e che oggi, chiunque strimpelli uno strumento (o smanetti con qualche diavoleria elettronica mettendo in sequenza dei suoni campionati) buttandoci dentro due parole, sia considerato di diritto, almeno dal punto di vista letterale, un cantautore.

Detto ciò non si scherzi: scrivere canzoni e musica di un certo tipo entrando in un mood che bisogna poi essere capaci di rimandare all’ascoltatore, necessita di un bagaglio culturale ed emozionale che mal si sposa con il desolante scenario musicale italiano del momento; fatti salvi alcuni nomi (viventi) che comunque si legano a lustri di un passato prossimo: da Umberto Palazzo a Fabrizio Tavernelli, fino a Umberto Maria Giardini, Federico Fiumani, Mario Venuti o giovanissimi come Gianluca Pacini e Roberto Doto (Robbè).

Proprio le canzoni di un giovane cantautore italiano mi sono girate in testa in questi giorni di caldo infernale. Si chiama Piervito Nicolì (nella foto),  trentenne di Vignacastrisi in provincia di Lecce; un conterraneo dunque, espatriato per studio e ventura in quel di Bologna, dove negli ultimi tempi ha intrapreso un “viaggio” come musicista di strada. A suonare le canzoni di musicisti che lo hanno ispirato (su tutti De Andrè, convitato di pietra… ascolterà sornione da qualche parte) e soprattutto le sue, che parola dopo parola sono diventate un disco.

Si chiama “Sentieri di sale” il primo album di Piervito Nicolì, ascoltarlo mi ha emozionato e, per certi versi, mi ha riportato al mio periodo adolescenziale. Sei canzoni comprese tra un Intro e un Prologo, sei frammenti di vita di qualcuno che sembra esser venuto fuori da un’altra epoca. È sconcertante come si possa riuscire a evocare atmosfere, trattare temi e sentimenti con un afflato ritenuto (a torto) desueto.

Una voce calda e profonda che gioca a imprigionare e liberare arie quasi medioevali. Atmosfere semplici e delicate che s’impastano a un cantato evocativo.

Ed eccole in rassegna le sei canzoni di “Sentieri di sale”.

Litoranea, si stende sull’apertura di un violino quasi dolente, poi la voce di Piervito entra sul filo di una narrazione che traccia le coordinate di un viaggio che porteranno il protagonista (è chiaro un collegamento autobiografico con l’autore) svelato nelle sei canzoni lungo una sorta di concept-esistenziale. Se a un primo ascolto si ha l’impressione che tutto ruoti intorno all’influenza di Fabrizio De Andrè, lentamente, tra i solchi, si delineano altre figure, più lontane nel tempo ma non meno importanti. È l’immagine giocosa di Herbert Pagani che mi si materializza davanti mentre la voce seducente di Piervito snocciola quartine di parole che trasmutano in poesia.

Giro di blues, è una ballata giocata sul movimento di plettri morbidi che accarezzano le corde di una chitarra gentile. Il testo attinge direttamente a pulsioni che sembrano esser venute fuori da retaggi identitari che si rifanno a giustizia e diritti civili. Un inno sincero ispirato da un sentire libertario che rimanda al più romantico e leggendario degli anarchici italiani: Errico Malatesta.

Fiore di merda, si apre con una punta di spillo che ti si conficca nel cuore. È curioso, i primi trenta secondi di questo brano si somigliano all’intro di “The Eternal” (dei Joy Division) nella versione acustica di Grant Lee Phillips. Se ci fosse ancora bisogno di dimostrare che la musica si fa con solo sette note, ecco qua: musicisti di diversa estrazione ed età, con esperienze e retaggi differenti, probabilmente mai lontanamente incrociati (dubito che Piervito Nicolì si sia mai confrontato con la musica di Grant Lee… anche se tutto può essere) che aprono una canzone con lo stesso giro di accordi. Per il testo, invece, nelle parole di Fiore di merda c’è tutto il De Andrè più giustizialista (siamo dalle parti di “Storia di un impiegato”, per intenderci).

Canzone per Sante, strizza l’occhio a quel combat-folk che ha incendiato la scena italiana negli anni novanta (dai Folkabbestia ai Modena City Ramblers, fino agli Yo Yo Mundi e i Mau Mau) ma con in testa sempre quel De Andrè che sembra non volersene proprio andare.

Simenti, anche se l’interessante vena creativa di Piervito Nicolì sembra essersi formata tra i vicoli dei bassifondi di Genova, rimane pur sempre figlio di una terra assolata che trasuda passione e dolore. Ed ecco lo spogliarsi per un attimo dalla forma canzone immergendosi nella sostanza della tradizione del linguaggio dialettale. Un divertissement senza perdere di vista gli obiettivi di cui tutto l’album è intriso.

Quello che non vedo (o non cerco), quasi una linea d’ombra, un fare il punto della situazione alla fine del viaggio. Un tirare le somme con la percezione di tanti altri viaggi paralleli che spesso non finiscono bene. L’irrazionale normalità del mondo che ci rende attori e spettatori allo stesso tempo. Il brano si apre con un incedere grave sulle corde di un violoncello e si stempera lento sugli accordi di una chitarra. La voce di Piervito cresce come trasfigurata tra i versi, si fa evocativa. Ancora una volta, come dentro un transfert… l’Albero pazzo diAndrea Chimenti si materializza di fronte alla mia percezione, ma è solo un attimo, come un castello d’acqua si sfalda sulle ultime note del brano.

“Sentieri di sale” è un album di formazione, un’illuminazione nelle notti di mainstream, un segno che c’è vita ai bordi di una scena musicale contratta e abbrutita da un edonismo strisciante.

Il ragazzo si farà / anche se ha le spalle strette / Quest’altr’anno giocherà / con la maglia numero 7”, così cantava Francesco De Gregori nella stupenda “La leva calcistica della classe ‘68”. Auspicio e augurio, lo stesso è per Piervito Nicolì, un giovane cantautore che mi auguro crescerà musicalmente e ci regalerà altre belle canzoni e interessanti album. Certo, vale anche un “liberarsi” da dogmi culturali e mentori ingombranti, reggendosi sulle proprie capacità che, inevitabilmente, si rafforzeranno.

Category: Cultura

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