LA RIFLESSIONE / RIASCOLTANDO A LUME SPENTO, CINQUANTA ANNI DOPO, “The dark side of the moon”

| 27 Febbraio 2023 | 0 Comments

di Roberto Molle  ______

Il 1° marzo di cinquant’anni fa veniva pubblicato un disco che avrebbe segnato per sempre la storia della musica. Il suo titolo è “The dark side of the moon”, ottavo album in studio nella discografia dei Pink Floyd. Con le sue cinquanta milioni di copie vendute risulta il terzo tra i cinque dischi più venduti al mondo (a precederlo ci sono “Back in black” degli AC/DC al secondo posto, e “Thriller” di Michael Jackson al primo) e con la permanenza di quindici anni in classifica, rimane uno degli album più importanti e discussi del rock.

“The dark side of the moon” è un concept-album che esplora temi come il conflitto, l’avidità, il tempo, la morte e la malattia mentale. La copertina, con uno spettro prismatico che nelle intenzioni della band illumina i temi trattati nelle canzoni, è a un passo dall’evocare ciò che oggi chiameremmo multiverso.

Aggiungere qualcosa di inedito sull’album e su una band fin troppo osannata e divenuta ferma icona del nostro tempo non è facile. È probabile che i Pink Floyd abbiano prodotto album migliori di “The dark side of the moon”, almeno per ciò che riguarda l’aspetto strettamente compositivo. Ma è vera anche l’idea che verranno ricordati e apprezzati più per le straordinarie innovazioni ed evoluzioni apportate al suono, tanto da meritarsi il titolo di “produttori di cibo per le menti” o per aver saputo coniugare suoni, hype, potenti muri del suono saturi di colori e distorsioni neo-psichedeliche con superbe melodie, a tutt’oggi considerate archetipi-rock a cui attingere.

Da subito “The dark side of the moon” si è posto, nel contesto della popular music del XX° secolo, come un ricco laboratorio di esperimenti post-lisergici, giocando col più spregiudicato art-rock della prima metà degli anni settanta. Artefice di questa “rivoluzione del suono” è Roger Waters, che, in qualità di alchimista rileva già dal 1968 il delicato e fragile Syd Barrett alla guida della band, erigendosi a folle, incontrollabile procacciatore di nuove sonorità che renderanno il “Floyd-sound” universale e istantaneamente riconoscibile in ogni parte del pianeta.

Quando il destino li rese orfani del genio anarchico e stralunato di Barrett, i quattro superstiti (Roger Waters, David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright) prima di approdare alla parte oscura della luna, percorsero un sentiero capace di toccare vette di sublime, spesso criptata cerebralità (a partire dal famoso doppio album “Ummagumma”, metà registrato live, metà in studio), regalando a un pubblico ancora acerbo le loro ricerche e i loro inusuali connubi di rumori destrutturati, tradotti in accattivanti squarci di quotidianità. Un tessuto visivo-sonoro frutto di una mente, quella di Roger Waters devastata da paranoie e visioni raccapriccianti, in eterna oscillazione tra sogno e realtà.

Come detto l’album viene pubblicato il 1° marzo del 1973 negli Stati Uniti e il 24 marzo in Europa, e a oggi è considerato come l’insuperato capolavoro dei Pink Floyd.

Alcune tracce del disco rimarcano senza soluzione di continuità l’essenza della band: “Speak to me” e “On the run”, riescono a fondere, tra rumori e soluzioni d’avanguardia, momenti di alto contenuto sonico-spaziale, ponendo le coordinate su cui poggia il pensiero pessimista di un Waters alquanto disorientato, autentico ambasciatore di un’incomunicabilità che diventa palpabile.

“Time”, trascinante nella sua felicissima fusione tra testo e musica, un passo in avanti per un non ancora del tutto sviluppato concetto filosofico all’interno dei parametri-rock, superba prova di lucidità mentale e intellettiva da parte del quartetto.

Poi quel “Money” che rapisce per la sua struttura semplice e quasi banale trascinando dentro un’ipnosi che introduce ai gironi più interni e psichedelici dell’album.

“The Great Gig in the Sky”, dominata dai vocalizzi di Clare Torry, è una sconvolgente visione soul-gospel, in grado di fondere fiammante liricità e drammaturgia quasi cinematografica… e da qui parte l’invito a riprendere il disco tra le mani, metterlo sul giradischi, accendere l’amplificatore, indossare le cuffie, innalzare il muro del suono e sprofondare nella magia di “The dark side of the moon”.

Category: Cultura

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