COME ERAVAMO / PARTIRE E’ UN PO’ MORIRE
di Raffaele Polo ______
Poi arrivava il momento che dovevamo partire… Per vacanza, per lavoro, per concorsi o per il servizio di leva (c’era, c’era a quei tempi, eccome! Ed era un periodo che tutti ricordiamo con un misto di nostalgia e fastidio…) E la stazione di Lecce diventava il luogo dove contrastavano sentimenti alternanti: si partiva (partire è un po’ morire) oppure si arrivava, e c’era sempre qualcuno ad attenderti.
È vero che un proverbio coniato non si sa bene da chi, afferma che ‘Lecce è città d’arte, e se ne frega di chi arriva e di chi parte’, ma la realtà dei treni, soprattutto per noi detentori dell’ultima stazione (in senso geografico e di costa adriatica,,,) è sempre stata carica di significato.
Che i bravi salentini hanno tentato ogni volta, ad ogni partenza, di riprogrammare a proprio uso e consumo, imbastendo liturgie che si sono succedute per tempi lunghissimi.
Anzitutto, la ricerca del posto (solo i cittadini e i viaggiatori più benestanti provvedevano ad una prenotazione) che veniva subito circondato da bagagli e segnali che indicassero che quei posti erano occupati: addirittura, si inviava un parente, almeno un’ora prima della partenza del convoglio, che occupasse i posti e ne sorvegliasse la esclusiva proprietà… Poi, all’approssimarsi del fischio di partenza, i marciapiedi si riempivano di parenti, amici, conoscenti, una vera folla che formava un brulichio incessante di persone che,poi, alla partenza del treno, rimanevano sulle pensiline, a colloquiare, sostituite subito dai parenti del successivo convoglio.
Appena il treno si muoveva, all’interno degli scompartimenti, esaurita la veloce disposizione dei bagagli, sempre comprensivi di latte, taniche e involucri che celavano soprattutto vino e olio (da portare ai parenti e comunque, non si sa mai…) avveniva una tradizionale e muta cerimonia: si scartavano pacchetti, si aprivano pentolini e ‘stanati’ e si iniziava a mangiare. Con offerte reciproche dei vari alimenti che comprendevano quasi sempre la parmiggiana (con due g), le cicorelle, la focaccia di patate e le immancabili frise. Per i più piccoli, i panini con prosciutto cotto e Soresina o Galbanino, evitando altro companatico ‘perchè sennò non lo digerisci nel treno’.
Il pasto terminava sempre prima di Bari Centrale e, a quel punto, era giocoforza spegnere la luce nello scompartimento, abbassare tutte le tendine e fingere un sonno profondo, per scoraggiare chi saliva sul treno a quella stazione e cercava disperatamente un posto… Il bello è che, anche da Bari, i viaggiatori ripetevano la stessa operazione alimentare e, nel buio dello scompartimento, il fruscio delle carte oleate e il profumo dei generi commestibili dava curiosità al viaggio che sarebbe stato lunghissimo.. A naso, con gli occhi sempre chiusi, riconoscevamo il profumo della focaccia barese, dei panzarotti e della ‘sgaliota’ che avevamo assaggiato una volta, esclamando ‘Ma è polenta!’ e offendendo chi ne decantava il sapore… Ad ogni stazione, spiando dal finestrino sempre oscurato, si alternavano i manifesti pubblicitari: Charms, Accademia Militare, Con Omsa che gambe, Digestivo Antonetto, Cornetto Algida e si succedevano i cartelli indicatori delle stazioni: Sala d’aspetto di Prima classe, Sala d’aspetto di Seconda Classe, Capo Stazione, Polizia Ferroviaria, WC..
All’irrompere della luce del mattino, i finestrini venivano liberati dalla copertura e la meraviglia, ogni volta, ci prendeva; non più mare e ulivi, ma campagne a vista d’occhio, alture e alberi mai visti prima. Un altro mondo, insomma, che ci faceva comunque rimpiangere tutto ciò che avevamo appena lasciato.
Category: Costume e società, Cultura
Negli anni ’60/70,il treno era molto usato quando si partiva per l’ Università, per lavoro o per vacanza. Quando mi recavo in stazione per l’arrivo o la partenza di un parente lontano, mi piaceva osservare quel luogo così animato dalla presenza di tante persone che si muovevano velocemente con le loro valigie, guardando sempre l’orologio… Una tipologia di viaggiatori così diversi tra loro… c’era il professionista che ostentava quel formalismo serio e impeccabile senza battere ciglio, la signora elegante scortata dal facchino per salire i propri bagagli sulla carrozza, bambini allegri ed euforici con i genitori, lo studente, il militare, l’emigrante con i suoi modi un po’ grossolani che portava con sé borse piene di cibarie che, in qualche maniera potessero ricordargli le sue origini… Insomma, uno spettacolo per me affascinante di un’umanità tanto diversa, ma unita nella condivisione di un viaggio verso un luogo lontano e di un pizzico di malinconia nel lasciare le proprie radici…