LA RIFLESSIONE / LA GUERRA SPORCA IN UCRAINA: IL SENTIERO OBBLIGATO DELLE TRATTATIVE

| 26 Ottobre 2022 | 0 Comments

di Dario Fiorentino  ______

La situazione è complessa, inutile negarlo. Come sembra intenzionato a fare l’apparato mediatico mainstream, continuando a ridurre la situazione ucraina ad una questione di principio riassumibile nella logica da fumetto che recita imperterrita: c’è un aggressore e un aggredito.

Ce ne siamo accorti.

Il problema è sondare cosa ci sia dietro, quali mondi, quali forze, quali dinamiche storiche, economiche e geopolitiche siano entrate in azione, per condurre allo spettacolo raccapricciante mandato in onda quotidianamente nelle televisioni di tutto il mondo, oltre che sui dispositivi social, autentici congegni, oggi, di produzione di opinione e conoscenza; lo spettacolo in questione è quello della guerra.

Doveva durare pochi giorni, era stato ribattezzato “operazione speciale”, avrebbe dovuto mettere in sicurezza alcune zone dell’Ucraina caratterizzate dalla presenza di popolazioni russofone tormentate, fin dal 2014, dalla repressione del governo centrale ucraino.

Secondo altri analisti, invece, l’obiettivo era dato dalla deposizione del governo ucraino in carica, da parte russa, per spezzare l’azione di accerchiamento della Nato che ha visto, negli ultimi trent’anni, incorporare quasi tutti i paesi aderenti un tempo al Patto di Varsavia, posizionando personaggi meno “dipendenti” da Washington.

Operazione lampo fallita, probabilmente a causa di informazioni fallaci fornite al Cremlino dai servizi di informazione e di sicurezza interni russi, i quali immaginavano una inesistente o scarsa resistenza interna ucraina, per non parlare del massiccio apporto occidentale in termini finanziari, logistici, tecnologici e militari.

Possiamo oggi escludere mire imperialistiche della Russia su altri Paesi europei, come gran parte delle forze politiche vorrebbero lasciar intendere, attraverso la grancassa mediatica, dal momento che, dopo tanti mesi, la Russia sembra militarmente impantanata in uno scenario che vede il proprio esercito a corto di uomini, di mezzi e in procinto di esaurire le scorte di armamenti -aerei e terrestri- e munizioni.

Inoltre, la maggior parte dei paesi intorno all’Ucraina, sono membri dell’alleanza Nato e ogni eventuale azione ostile da parte russa determinerebbe la reazione automatica di tutto il blocco occidentale a difesa del paese aggredito, aprendo uno scontro diretto e frontale fra le due principali superpotenze mondiali, i cui risvolti sarebbero sicuramente apocalittici per il genere umano.

Una vera e propria “impasse”, dunque, dovuta principalmente alla resistenza ucraina che ha saputo, supportata dalla sfera atlantica, ribattere colpo su colpo, costringendo i russi a ripiegare nelle zone occupate, impedendo loro qualsivoglia nuova, velleitaria avanzata. Ma si tratta di una impasse pericolosa: se è fuor di dubbio la superiorità militare e tecnologica della Nato nella guerra convenzionale, è altrettanto chiaro come la Russia, in questi anni, abbia preferito implementare le dimensioni del proprio arsenale atomico, potenziando le capacità di deterrenza nucleare.

L’Ucraina è divenuta una sorta di Siria europea, ove si combatte una guerra sporca e per procura che se da un lato sta spingendo la Russia verso nuove rotte di mercato asiatiche e medio-orientali, a causa dei blocchi economici e delle sanzioni europee, dall’altro sta conducendo il nostro continente verso il baratro industriale e finanziario dato che, per adesso, non sarà più possibile acquistare a basso costo le risorse naturali russe, spingendo imprese e famiglie nella morsa della speculazione dei mercati e di politiche economiche europee che sembrano di giorno in giorno sempre più disorganiche, improvvisate e disfunzionali alla risoluzione dei problemi che si profilano all’orizzonte.

Una guerra nella guerra potremmo dire, una guerra economica sotterranea che vede gli Stati Uniti trarre benefici fondamentali dallo spostamento dell’asse degli acquisti di risorse energetiche da parte dei Paesi europei a prezzi decuplicati, come lamentava pochi giorni fa il ministro dell’economia francese Le Maire, seguito a ruota dall’omologo tedesco che evidenziava come una possibile de-industrializzazione europea, con conseguente dismissione e delocalizzazione degli impianti, magari proprio negli Usa, porterebbe l’Europa ad un rapido declino, rinforzando dall’altro lato l’economia e la fiscalità americane che attraversano anch’esse un momento di crisi.

Non bisogna dimenticare che le autorità di Danimarca e Svezia hanno da poco posto il segreto di Stato sui fatti riguardanti le esplosioni che hanno danneggiato le strutture dei gasdotti Nordstream, canale diretto di transito del gas tra Germania e Russia. Non sarebbe dunque ipotesi peregrina interpretare l’accaduto come un “avvertimento” ai danni della Germania, la cosiddetta locomotiva industriale europea.

A chi conviene dunque la prosecuzione di una guerra che sembra non potersi concludere per la relativa incapacità dei due fronti in lotta?

In una tale situazione economica, con le elezioni americane del medio termine alle porte, quanto ancora potrà durare il supporto occidentale alla causa ucraina?

Al netto delle grandi dichiarazioni di principio secondo le quali un eventuale accordo di pace potrà concludersi soltanto alle condizioni del governo ucraino, il quale ha da poco promulgato un decreto che addirittura impedisce formalmente di trattare col Cremlino, si intravedono alcune crepe sul fronte occidentale, specialmente statunitense, relativamente all’appoggio incondizionato cui l’Ucraina ha goduto fino a questo momento.

Il puzzle è composito: inutile attendersi che gli attori occidentali dicano o suggeriscano pubblicamente qualcosa di diverso rispetto alle posizioni espresse fin qui. Ma oltreoceano le voci della grande stampa, da Newsweek al Washington Post, passando per il New York Times, che invitano l’amministrazione Biden ad essere più flessibile circa la gestione degli appoggi all’Ucraina si moltiplicano; si paventa finanche la possibilità che esistano pressioni private che spingano al compromesso il governo di Zelensky, invitando gli attori internazionali alla “creatività” che aveva contraddistinto Kennedy durante l’unico precedente storico -la crisi cubana del 1962- che aveva condotto il mondo sul baratro della prospettiva concreta della guerra nucleare.

Senza dimenticare le continue, velate, ma eloquenti critiche di un vecchio falco della politica estera americana, Henry Kissinger, sulla mancanza di prospettive occidentali circa il rischio di impelagarsi in un confronto bellico diretto con la Russia.

Insomma, più piani politici e mediatici intrecciati e sovrapposti: l’esigenza di fornire all’opinione pubblica l’impressione di essere irremovibili su determinate questioni di principio si combina con la necessità di formulare un quadro politico e un tessuto narrativo che, quando sarà il momento del cessate il fuoco, offrano al mondo l’impressione che tutti abbiano vinto in qualche modo, difendendo i propri interessi, raggiungendo i propri obiettivi strategici, contrattando poi sottobanco pesi e contrappesi degli accordi tra le due parti in causa dirette.

Lo ha sottolineato giorni fa anche Elon Musk, proponendo in un twitter di ripetere i referendum che hanno portato all’annessione alla Russia delle regioni del Donbass sotto il controllo e la garanzia delle Nazioni Unite; come per dire che, inevitabilmente, al di là della retorica aggressore-aggredito, alcune concessioni alla Russia andranno fatte necessariamente, essendo impensabile oltre che ingenuo poter pensare di costringere la maggiore potenza nucleare al mondo a tornare alla situazione immediatamente precedente al 24 febbraio di quest’anno. Già migliaia di anni fa, Sun-Tzu, nel suo mirabile trattato sull’arte della guerra diceva: al nemico all’angolo, va sempre lasciata una via d’uscita!

E se pubblicamente l’escalation sembra continuare, non sono mancati gli input da parte statunitense che offrono uno spettro di ipotesi egualmente plausibili, ma da dimostrare: ci si riferisce ai casi dell’assassinio di Daria Dugina, figlia del filosofo Dugin, ritenuto l’ideologo del regime di Putin mediante un attentato alla bomba(nella foto), e dell’attacco, sempre alla bomba, al ponte della Crimea, per i quali d’oltreoceano sono giunte conferme circa l’implicazione dell’SBU, vale a dire il servizio segreto ucraino.

È possibile che una parte dell’amministrazione americana sia pronta ad imporre a Zelensky una trattativa, ma che debba ancora fare i conti con il gruppo di pressione dell’industria bellica e con alcuni settori dei servizi divenuti “canaglia”, i quali avrebbero aiutato quelli ucraini nella commissione degli attentati?

È altresì possibile che gli americani, finora reale “deus ex machina” della reazione militare ucraina, grazie all’appoggio logistico e tecnologico, abbiano perso parzialmente il controllo del governo di Zelensky o di alcuni settori dei servizi di sicurezza che avrebbero agito di propria iniziativa nei casi dell’uccisione della Dugina e dell’attacco al ponte in Crimea?

Ben inteso potrebbe valere anche il contrario, immaginando un’operazione russa di false flag, ma in questo caso la propaganda occidentale non avrebbe perso tempo a valorizzare tale opzione.

Come accade in queste ore a proposito del possibile impiego, non si sa ancora precisamente da parte di chi, di una bomba nucleare “sporca” a guisa di minaccia o di pretesto per giungere a reazioni militari ben più importanti quanto pericolose; Zelensky non è nuovo a domandare, sempre secondo quanto riportano i mass media, no fly zone oppure attacchi preventivi nei confronti di Mosca, ignaro, apparentemente, che l’incidente tra Russia e Nato è sempre dietro l’angolo e può cagionare conseguenze incalcolabili.

Nelle ultime ore è tornata in auge anche la possibilità che sia il Papa in persona a poter mediare tra le parti: fonti russe affermano che il Cremlino sarebbe anche disposto ad un’opzione del genere, ma resta il dubbio sul chi e il come dovrebbe incaricarsi di contattare Zelensky per condurlo al tavolo delle trattative. In fondo, com’è logico, la pace non si può fare che in due.

Dopo, semmai, si discuterà del torto e della ragione, tenendo bene a mente che soldati e civili continuano a morire e che lo spettro nucleare, benché ancora improbabile, è pur sempre tecnicamente possibile.

Il Cremlino è stato chiaro: qualunque minaccia alla propria esistenza renderà attuale la propria dottrina sull’impiego di testate termo-nucleari; le regioni ucraine occupate, benché i referendum non siano stati riconosciuti dal mondo occidentale, vengono formalmente, da parte dei russi, considerate come parti della madrepatria; ogni attacco sul Donbass in mano ai russi viene considerato come un atto ostile contro Mosca, ennesimo di una serie iniziata con i supporti dei paesi Nato al governo gialloblù.

Resta il nodo economico europeo: bisogna sperare, come scriveva Pasolini, che gli americani ci concedano di costruire una democrazia di tipo diverso, compiuta, soggetto attivo della inevitabile mediazione diplomatica e non vaso di coccio tra i vasi di ferro alla mercé delle tempeste delle guerre economiche con i nuovi grandi attori saliti da qualche anno a questa parte alla ribalta mondiale, Cina in testa.

Ma perché ciò sia possibile bisogna non solo scongiurare l’incidente in grado di condurre al conflitto nucleare, ma proprio evitare di parlarne, come invece è stato fatto in queste settimane, sdoganando un’opzione che nemmeno dovrebbe essere presa in considerazione, normalizzandola presso un’opinione pubblica che, evidentemente, ancora polarizzata com’è, non possiede l’esatta cognizione del significato e delle conseguenze di una simile svolta militare.

Category: Politica

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