LA BANALITA’ DEL MOSTRO
A TRENTA ANNI DI DISTANZA, DARIO FIORENTINO IN ESCLUSIVA PER leccecronaca.it RICOSTRUISCE L’ATROCE DELITTO DEL PICCOLO DANIELE GRAVILI A TORRE CHIANCA RIMASTO SENZA COLPEVOLE
di Dario Fiorentino ______
Sono passati trent’anni esatti.
La sera del 12 settembre 1992, il dispaccio dell’Ansa è impietoso. Recita così: “un bambino di tre anni, Daniele Gravili, è morto per soffocamento dopo essere stato violentato su una spiaggia del Salento da una persona che non è stata ancora identificata. Il bimbo è stato ritrovato ancora vivo, su una spiaggia distante un chilometro dalla sua casa di Torre Chianca. Il piccolo è poi morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. I medici hanno successivamente accertato che Daniele è stato soffocato dopo aver subito violenza. Secondo i primi accertamenti, il bambino sarebbe stato prelevato dal giardino della sua casa dove stava giocando”.
Non è insolito, cercando sul web i pochi articoli dedicati al caso, scorgere tra i titoli o nei testi la locuzione “mostro di Torre Chianca”. È comprensibile, anche se è improprio, alla luce di come sono andate le cose, anche se si tratta di un delitto atroce che non ha mai ricevuto l’attenzione e lo studio che avrebbe meritato.
Perché è improprio parlare di “mostro” anche se ciò viene quasi naturale innanzi a casi del genere?
Secondo l’enciclopedia Treccani per “mostro” s’intende “un essere che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale e come tale induce stupore e paura. Esseri mostruosi sono largamente presenti nelle antiche mitologie e nelle tradizioni religiose e popolari, dove vengono ora assunti come reali e caricati di significati complessi, ora come simboli di realtà altrimenti non rappresentabili ed esprimibili”.
Nell’ultima frase è raccolta la cifra emotiva che ci fa definire in tal modo gli autori di simili delitti, che riassume e sintetizza in sé l’intera storia semantica del termine “mostro”, sin dalle sue oscure e incerte origini, passando per l’antichità greca e latina fino al significato medievale e moderno della parola.
In greco, la parola equivalente è “téras” ed indicava un segno terribile inviato da Zeus; solo da Omero in poi il termine avrebbe indicato un qualsivoglia segno divino grazie al quale, per via d’interpretazione, i comuni mortali sarebbero stati in grado di prevedere il futuro; in latino, invece, “monstrum” sta ad indicare sia un prodigio che un essere soprannaturale.
Secondo il linguista Benveniste, il termine potrebbe derivare da “monere” che vuol dire ammonire oppure da “monstrare”, cioè far vedere, indicare qualcosa o una condotta da seguire. Successivamente la parola “monstrum” subisce un’evoluzione tale da incorporare il significato dell’equivalente greco del termine, assumendo l’accezione di “fatto prodigioso che stupisce e suscita meraviglia”. Ci si riferisce, dunque, a qualcosa che esula dal comune, presentando tratti straordinari, anomali, anormali; in altre parole, ad una entità contraria alle leggi di natura, contro-natura.
E cosa può l’umano innanzi al “mostro” se non restare sopraffatto dalla commistione irresistibile del fascino e dell’orrore?
Il mostro può essere seducente, affascinante, ma al contempo terrificante. Già dall’antichità classica si sedimenta la carica oscura e negativa del rapportarsi al mostro, poiché il mostruoso non offre punti di riferimento, disorienta, lascia spaesati dal momento che non si lascia concepire e conformare ad un modello comune, rassicurante, familiare, conosciuto.
Si pensi al Ciclope di Omero o a quei trattati medievali che sublimano il mostruoso come eccezione che rasenta la più radicale violazione del reale e del naturale: lo svuotamento simbolico del termine “mostro” lo sottrae a ogni residuale ruolo di medium tra l’umanità e la dimensione ultraterrena per relegarlo nella sfera del fantastico.
Esauritasi la portata linguistica relativa al soprannaturale, il mostro moderno diviene un significante silente, il quale vede la propria favolosità essere annullata definitivamente dal pensiero sperimentale e scientifico del XVIII secolo, quando si riduce a relitto di credenze e leggende popolari. Ma, già nella lingua italiana del XIV secolo, lo stesso termine aveva iniziato ad assumere il significato di “essere abnorme”, di “cosa deforme ed orrenda”, come anche “crudele e disumana”. Ed è ciò che proviamo quando leggiamo le notizie relative a determinati fatti di cronaca, nell’istinto illusorio di poterci difendere psicologicamente gridando: è stato un mostro!
Come se questo fosse talmente diverso, tanto raccapricciante e raggelante alla vista da non “abitare” in società, offrendoci il tempo e il modo di scorgerlo e di neutralizzarlo prima dell’irruzione nella comunità attraverso le sue gesta scellerate. Ma è, appunto, solo un’illusione. Se c’è “mostruosità”, nel senso in cui la intendiamo emotivamente, questa non è biologica, bensì più profonda, latente, complessa, strutturata psichicamente, pronta ad esplodere come una bomba ad orologeria. E la realtà diviene così più perturbante della fantasia a dispetto di ciò che ne potesse pensare Freud; perché, come aveva scritto Jung, “il giorno in cui il Male ti assalirà spietatamente, non ti potranno soccorrere né padre né madre, né giustizia né mura né torri, né corazze o forze protettive. In questa lotta tu sei solo”.
Ed è proprio ciò che accade al piccolo Daniele, troppo esile e indifeso per portare una corazza; inutili le mura della casa di Torre Chianca nella quale abitava con i genitori durante le vacanze estive; fatali gli istanti di distrazione degli stessi intenti a fare i bagagli per tornare a Lecce, in quel primo pomeriggio del 12 settembre di trenta anni fa, battuto dalla tramontana, ma comunque ancora caldo; impotente la giustizia, dato che chi ha adescato il piccolo Daniele, aprendo il cancello della sua casa e portandolo con sé, ancora non ha un volto e un nome.
Ma chi si è avvicinato a quel cancello era un uomo “normale”, fin troppo comune probabilmente, per riuscire a conquistare in pochi secondi la fiducia di un bambino di tre anni. Il piccolo non coglie l’orrore, questo verrà dopo.
Quando i genitori di Daniele Gravili si rendono conto che il figlio non è più in casa e iniziano a cercarlo nei dintorni e presso i vicini, fino al bar della Torre, un altro Daniele, un ragazzino di dodici anni che sta passeggiando sulla spiaggia con fare spensierato, si accorge di qualcosa sulla battigia: pensa prima ad un bambolotto abbandonato sul bagnasciuga, poi capisce.
È un corpicino umano quello che giace a faccia in giù sulla sabbia bagnata dal mare; si spaventa e corre a chiamare gli abitanti delle villette vicine, probabilmente ancora intenti a pranzare o in procinto del riposo pomeridiano.
Accorrono le prime persone che pensano si tratti di un annegamento. I genitori, al bar della Torre chiamano i carabinieri i quali comunicano di aver già ricevuto la segnalazione di un corpo ritrovato sulla spiaggia; si precipitano, vengono fermati dai presenti per impedirgli di assistere ad una scena pietosa, mentre un vigile del fuoco pratica le manovre di rianimazione sul piccolo corpo.
Daniele sembra riprendersi, diventa più caldo e ricomincia a respirare. Sono passati quarantacinque minuti dal momento in cui è stato ritrovato, alle ore 14:30, quando l’ambulanza inizia a sfrecciare verso l’ospedale Vito Fazzi di Lecce. Soltanto quattro ore dopo, un infermiere del reparto di rianimazione scoprirà cosa è accaduto: avendo difficoltà nel sentire il polso radiale, abbassa i pantaloncini e le mutandine del bambino e si accorge della presenza di alghe, segno che il piccolo Daniele è stato spogliato e poi rivestito; non solo, ci sono anche tracce di sangue tra le natiche, indice di una possibile violenza sessuale. L’infermiere chiama allora il medico che conferma i sospetti, visto che sul corpo e sui vestiti del piccolo vengono rinvenute anche tracce di sperma. Daniele non stava soffocando per un annegamento: è stato violentato e tenuto a faccia in giù sul bagnasciuga per immobilizzarlo. Morirà alle 21:30.
Le ore trascorse tra il ritrovamento del corpo e la macabra scoperta della violenza sessuale danno all’assassino la possibilità di eclissarsi, anche perché l’altro Daniele, l’adolescente che ha scoperto il piccolo corpo sulla spiaggia, parlando con gli inquirenti offre versioni discordanti circa l’accaduto e i suoi movimenti: ha paura di essere sospettato, dichiara prima di essere andato a casa della nonna ad innaffiare le piante dopo il ritrovamento del piccolo, poi di aver trascorso una mezz’ora in casa di un amico, un fantomatico Marco; gli investigatori gli chiedono di accompagnarlo da questo amico, ma dopo quasi un’ora Daniele riconosce di aver detto una bugia perché spaventato; ma questa volta da un uomo con i capelli brizzolati e dalla barba incolta visto vicino al corpo del piccolo Daniele, prima che questi iniziasse a fuggire verso il bar della Torre. L’uomo viene identificato, ma successivamente scagionato dall’esame del DNA.
Una telefonata anonima sembra far svoltare il caso: una voce anonima accusa un certo Silvio, un personaggio “particolare” del posto: gli abitanti di Torre Chianca non credono alla colpevolezza di Silvio, lo conoscono, hanno fiducia, affermano che Silvio, nonostante sia un po’ “diverso”, ha cresciuto i loro figli, è un buono, non farebbe male ad una mosca.
Il sostituto procuratore della Repubblica, Cataldo Motta, insieme al dirigente della Squadra Mobile della Questura lo ascolta, e Silvio afferma di aver pranzato con i suoi familiari a Surbo nell’ora in cui il piccolo Daniele veniva adescato e violentato. I familiari confermano anche se un altro bambino del posto, testimonia di averlo visto immediatamente dopo la scoperta del fatto, mentre si allontanava dalla spiaggia, quando tutti invece vi si dirigevano. Chi si sbaglia o mente?
A ogni modo, durante l’interrogatorio di Silvio emerge un particolare interessante e inquietante: questi segnala agli investigatori l’esistenza di un passaggio condominiale praticamente sconosciuto che porta da casa di Daniele alla spiaggia dove è stato ritrovato; è un passaggio sabbioso, caratterizzato dalla presenza di molte dune che rendono difficile vedere la battigia; in questo passaggio, vengono ritrovate per terra alcune caramelle, probabilmente utilizzate dall’assassino come esca per il bambino.
La soluzione del caso sembra a portata di mano, ma l’esame del DNA scagiona anche Silvio come avrebbe poi scagionato altre diciassette persone finite nel mirino della Procura.
L’inchiesta sarebbe stata archiviata tre anni dopo, tra le proteste del senatore Giovanni Pellegrino per la poca considerazione del Governo nei confronti dell’accaduto -se si pensa allo spiegamento di forze messo in campo per la “caccia” al cosiddetto “mostro di Foligno” le cui “gesta” erano state coeve a quelle dell’omicida di Torre Chianca- e le difficoltà incontrate dagli inquirenti locali, definite finanche superiori a quelle relative alle indagini sulle organizzazioni mafiose dell’epoca.
Non si trova un solo testimone, nessuno quel giorno sulla spiaggia sembra essersi accorto di alcunché; eppure l’assassino deve aver agito d’impulso, mosso da un desiderio perverso, irrefrenabile, concitato nella sua barbarie, poco organizzato al punto di aver lasciato le proprie tracce biologiche sul corpo. Tracce inutili ad oggi, senza un soggetto con cui fare l’esame comparativo.
La vita è cambiata per i villeggianti di Torre Chianca da quel giorno: catene e lucchetti su porte e cancelli hanno a lungo ricordato che un assassino sadico-sessuale con tendenze pedofile, poco importa se forestiero o del posto, è stato o è ancora oggi a piede libero, “protetto” e mimetizzato da e nell’apparenza di una assoluta normalità.
Category: Cronaca
Magistrale, commuovente ricostruzione. Bravissimo Fiorentino!