LE ZEPPOLE LECCESI, LE MIE Madeleine de Proust
di Raffaele Polo_____
Sono anni che, in questi giorni che si avvicinano a San Giuseppe, mi trovo a scrivere un pezzo nel quale le ‘zeppole’ sono protagoniste. Oddio, magari le faccio entrare di sguincio (una bella locuzione, che non si usa più, retaggio di come scrivevano i nostri nonni, con quella bella calligrafia, adesso ce le sogniamo certe espressioni, anzi le semplifichiamo e le eliminiamo. Ma è un peccato perché hanno ancora intatto il loro fascino…) ma sento l’impellente bisogno di nominarle ed esaltarle perché, a pensarci bene, sono il più bell’esempio dell’arrivo della Primavera e, per tutti gli esseri viventi, della ripresa della Luce e del Caldo che ci conciliano col bello della Vita.
Vedete, senza esagerare, ho paragonato questi dolci ricchi di crema al Meglio in assoluto. E pensare che da piccolo, i miei genitori (come tutti i loro coetanei, del resto) evitavano di comprarle. ‘Chissà cosa ci mettono in quella crema’ ci dicevano, nel tentativo di convincerci che non era il caso di preferire quel tipo di dolce che ce le aveva proprio tutte le controindicazioni: era fritto, grasso e zuccherato oltre il consentito.
Tra l’altro, costava anche di più, rispetto alle altre paste, meno appariscenti e più adatte ai bambini. Avevano ragione, come al solito. Ma ottenevano il risultato opposto: infatti, appena abbiamo potuto autogestirci sia pure nelle piccole cose, ostentando un’avversità verso quei dolci così pieni di ‘cremazza gialla’, correvamo di nascosto ad abbuffarci nel bar vicino casa. E, magari, eravamo anche capaci di affermare: ‘Non capisco come possano piacere quelle schifezze’ quando tornati a casa, rispondevamo così alla mamma che, conoscendoci bene, ci guardava con sospetto e ci chiedeva se, per caso, avessimo mangiato dell’albero delle zeppole…
Mentivamo serafici, ma la consideravamo una giusta causa, come quando ci obbligavano a calzare il cappello. Ora, noi abbiamo sempre odiato quel cappello stile tirolese, verde e con un accenno di piuma, è vero che anche Maigret lo aveva sempre, ma volete mettere lo stesso cappello in testa a un ragazzino con i calzoni corti e i calzettoni? Così, uscivamo tronfi tra le raccomandazioni e ostentando il copricapo….che adagiavamo sulla finestra dell’anticamera, fuori. Pronti a riprenderlo al nostro rientro in casa , rispondendo con i fatti ai dubbi dei genitori…
Monellerie? Ma no, solo onesti tentativi di affermare la nostra personalità. E via via che passavano gli anni, è così che siamo diventati uomini, figlio mio, avrebbe detto qualche grande scrittore, scoprendo l’acqua calda perché tutti quelli della mia generazione hanno fatto lo stesso e sono passati dall’eterno quesito kantiano: fare esattamente il giusto oppure raggiungere un utile compromesso che ci consentisse di gustare la Vita?
E le zeppole sono state sempre al centro di questa nostra filosofia, anche adesso, mutatis mutandis (che bella frase latina, noi la traducevamo con ‘cambiate le mutande’ e ci veniva da ridere. Ma non era una traduzione sbagliata perchè le mutande si chiamano così proprio perché vanno cambiate…) il problema si sposta alla fattura degli squisiti dolci: fritte o al forno? Gigantesche o mignon?
Ci risiamo: anche quest’anno abbiamo parlato delle zeppole. Ma la saggezza latina sempre attuale, ci conferma che repetita juvant.
Il cappello, in verità, anche adesso ci infastidisce non poco.
E pure con la pandemia, con il lockdown, le abbiamo ordinate e le ritiriamo, tramite asporto. Le tradizioni si tengono strette e si perpetuano (ah, che bello questo verbo. Sa di zucchero e crema gialla…)
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