LA STORIA / SULL’ULTIMO SUCCESSO DEI ‘NOSTRI’ BOOMDABASH: “Sì, va bene, non mi preoccupo”
di Mariangela Rosato______
“Don don don”, la campana sta suonando e qualcosa scombussola lo stomaco se solo penso che tra poco arriverà. E’ sempre la stessa storia: urla a fiumi, grida che sveglierebbero finanche i morti dell’altro mondo.
Spero solo che oggi sia diverso, meno urla per dover mettersi in macchina e andare dagli amici di famiglia. Ma certo, ieri lo avevano già detto che si sarebbe andati tutti insieme senza il casino che di solito fa da eco e io avevo riso con quella risata che papà dice di essere inconfondibile: gli occhiali neri, un po’ troppo grandi e rotti sui lati mi si abbassavano sulla punta del naso, si vedevano ben enormi gli occhioni che quasi piangevano alle prese con un riso che la pancia mi implorava di fermare. E sì, oggi posso dirlo che sarà diverso: tutti tranquilli, tutti sereni. Mettiamo il vestito nuovo e si va.
Sono quasi pronta: mi mancano solo le scarpe con il tacchettino, il cerchietto bordeaux e il cappotto nuovo che ieri sono andata a comprare con la mamma.
Un primo urlo mi mette in allerta, ma niente di ché, dai, non sarà niente, hanno detto che saremmo andati senza problemi e poi oggi ci sono anche i miei amici a cui ho promesso di giocare a ruba bandiera. Il fazzoletto lo porto io: ho già detto che sarà rosso e loro hanno acconsentito, basta che non lo dimentichi com’è successo l’altra volta altrimenti temo che non mi parlino più. Un secondo urlo riconferma l’allerta di prima, lascio subito la scarpa per terra e scalza, con i piedi coperti solo dai collant velati, vado in soggiorno.
La scena che vedo è quella di sempre: da una parte, lei che grida di essere stufa degli stessi problemi e dall’altra, lui che replica urlante di essere stanco di quegli sprechi ed imposizioni, di essere stanco di far cose che dice di non voler fare.
All’inizio non dico niente: sono lì che li guardo litigare mentre le voci iniziano a farsi sempre più forti. Perché continuano a fare così? Non voglio che la giornata vada in fumo un’altra volta, ho già promesso ai miei amici la storia del fazzoletto e non posso perdermi ancora un’occasione simile.
“Ma perché, perché. Dai andiamo siamo pronti, anche io sono pronta!” – tiravo il braccio di lei. “E dai, dai, andiamo!”, tiravo il braccio di lui, eppure entrambi non mi prestavano la minima attenzione. Ma perché insisto così tanto?
Non posso negare che questa giornata è importante soprattutto per altro: ci sarà, almeno io lo spero, Federico, l’amico della mia amica che frequenta la classe accanto alla mia. Non ci siamo mai parlati, ma ogni volta che lo vedo mi prende la stessa ansia che ho prima dell’interrogazione con la maestra Maria. Non so esattamente cosa sia, me lo sono chiesta tante di quelle volte senza darmi alcuna risposta. Quello che so è che si tratta di una sensazione che mi aumenta il battito cardiaco, mi fa diventare tutta rossa in viso, spesso mi porta finanche a balbettare.
Allora, ogni volta che lo vedo scappo subito dentro la mia classe, mi metto seduta sulla sedia del mio banco e mangio la merenda aspettando che la sua voce, che mi rimbomba nel petto, si dilegui e io possa andare a salutare la mia amica senza aver per forza quel battito nel ventre.
“Dai dai andiamo, dai, smettetela!”, niente di niente. Continuano ad urlarsi sopra e non si fermano neanche quando sono io a mettermi ad urlare per chiedere loro di smetterla una volta per tutte perché stanno rovinando, ancora, una giornata che sarebbe stata meravigliosa.
Lo aspetto da tanto questo giorno: finalmente mi sono decisa a dire a Federico che ogni volta che sento anche solo la sua voce nel corridoio percepisco un crampo così forte allo stomaco che non riesco a fare nient’altro. Il perché mi è sconosciuto, ma quella cosa me lo impedisce. In realtà non so bene cosa debba dirgli, stamattina ho cercato di trovare le parole giuste ma non ci sono riuscita. Nonostante questo, so che devo parlargli perché forse, mi sono detta, questo mi libererà dal mal di pancia.
La situazione qui non si smuove, questi continuano ad urlare. Ma dove la prendono questa voce? E poi, non hanno proprio voglia di fermarsi solo qualche minuto? Anche solo prendere un po’ di fiato potrebbe permette loro di recuperare la saliva e dare a me qualche momento di vantaggio per convincerli.
E’ già passata una mezz’ora da quando saremmo dovuti partire, non so neanche se ci stanno aspettando. Certamente avranno capito che, anche oggi, non si andrà da nessuna parte e, anche oggi, abbiamo dato buca.
Non ci inviteranno più e non potrò mai più parlare a Federico del mio mal di pancia: fine della festa prima ancora che questa sia iniziata. Con una scarpa sì e l’altra no, ritorno nella mia stanza, mi tolgo il cerchietto tra i capelli, riguardo il fazzoletto rosso che avevo messo sul letto e mi siedo alla scrivania senza sapere bene cosa fare.
Ho già finito tutti i compiti, posso prendere forse un libro e leggere? No oggi, non ne ho alcuna voglia. Tutti i personaggi di questi romanzi sono avvincenti, con poteri fuori dal normale e io, invece, che potere posso avere? Sicuramente nessuno, se non riesco neanche a farli smettere perché la mia voce è troppo bassa, insignificante e, quando percepisco tensioni, balbettante.
Cos’è?
Vicino la scrivania trovo un oggetto rotondo con delle cuffie e all’interno un disco. Penso che sarà sicuramente dello zio che deve averlo dimenticato l’altro giorno quando è venuto a casa per salutarci.
Non vediamo spesso lo zio ed è costretto ad essere lui a venirci a trovare e non noi. L’altro giorno aveva portato con sé queste cuffie e, insieme, avevamo ascoltato delle canzoni nuove del momento, erano cantanti troppo grandi per me, mi diceva, ma io già immaginavo i loro visi e pensavo poi che forse, quando sarei diventata finalmente grande, avrei potuto incontrarli. Ma no, che stupidaggini mi passano per il cervello. Io non ho nessun potere, nessuno.
Lo zio ieri, invece, mi ha detto che sì, di poteri ne ho tanti, ma io non ci credo, non ho nessun potere. Che potere posso mai avere?
Guardo il cd, dice “Don’t worry” dei Boomdabash, novembre 2020.
Metto le cuffie. “Quando tutta questa sabbia finirà/ il sole esploderà come tutte le stelle/ don’t worry, dont’t worry…. /Dalle galassie irraggiungibili/ alla fermata del tram/ don’t worry, dont’t worry/ dagli abissi del pacifico/ a questo bar/ dont’ worry, dont’t worry/ da mille voci che ora cantano/ a questa qua/ don’t worry, don’t worry”. E subito mi immagino sulla piazza con gli altri amici, il fazzoletto rosso tra le mani pronta a giocare a ruba bandiera e Federico.
Lo vedo, è lì, ha appena lasciato la bici appoggiata sul muro con il cavalletto. Sento la sua voce farsi più vicina mentre la pancia inizia a far male, la fronte si accalda, le mani mi sudano. Mi volto verso di lui e lascio uscire la voce.
Cos’è?
Ma sì, sono le cuffie e il disco dello zio, è rimasto ancora tutto qui dopo tanto tempo. Sarebbe meglio che andassi io a casa sua ora che abbiamo comprato la macchina nuova. Il lavoro mi prende troppo tempo, ho così tante cose da scrivere e lo zio lo vedo poco, anche se cerco di andare da lui ogni domenica a pranzo. Dico a Federico che esco qualche minuto, giusto il tempo di passare da casa dello zio. Mi apre con il bastone tra le mani, i capelli che gli sono diventati bianchi da un po’ e una copertina sulle spalle, fa davvero molto freddo oggi. Mi avvicino al camino, ravvivo il fuoco dei tronchi che si sta spegnendo pian piano e mi siedo accanto alla sua poltrona.
Lo zio è stanco, parla poco questa sera, troppi pensieri forse. Gli poggio, allora, le cuffie sulle orecchie e il viso riprende vigore mentre gli occhi si illuminano. Mi stringe, poi, le mani e mi canta con la voce già assonnata: “Quando tutta questa sabbia finirà/ il sole esploderà come tutte le stelle/ don’t worry, don’t worry”.
Category: Costume e società, Cronaca, Cultura