FERNANDO ALONSO IMMORTALATO DAI GEMELLI STIFANI, NEVIANESI
IL DOCUMENTARIO SUL PILOTA DI FORMULA 1 TRASMESSO DA AMAZON PRIME. A leccecronaca.it IL RACCONTO DI LUCA E GABRIELE
di Francesco Buja______
Questa volta i gemelli Stifani, nevianesi di stanza a Londra, si sono misurati in un documentario sull’automobilismo.
Due anni fa filmarono le quinte del Manchester City durante la gloriosa stagione degli Sky Blues, puntando la telecamera soprattutto sull’allenatore degli stessi, Pepè Guardiola. Sequenze trasmesse da “Amazon Prime”.
Da oggi invece sarà disponibile la serie televisiva “Fernando”, incentrata sull’asso spagnolo della Formula Uno, Alonso. Documentario girato fra aprile e giugno del 2019. Luca l’ingegnere del suono e Gabriele il direttore della fotografia. Con loro uno dei registi che aveva lavorato anche all’altra serie tv: lo spagnolo Enric Folch. Previste cinque puntate di un’ora circa ciascuna.
«Questo di sicuro è il nostro progetto più importante da quando abbiamo cominciato la nostra carriera cinematografica e ne siamo molto fieri per i ruoli e responsabilità che abbiamo coperto» si compiace Luca. Il documentario è prodotto da “The mediapro studio” e “Amazon studios”. «Non sapevamo chi o cosa avremmo dovuto filmare – racconta Luca – ma sapevamo che ci avrebbe tenuto lontani da Londra, in diversi Paesi. In gergo si chiama “running and gunning”: vai in un posto e devi subito andar via. L’idea era di filmare Alonso, in quel periodo in cui non era in Formula Uno, perché inseguiva la cosiddetta “triple crown”, cioè la vittoria di tre titoli mondiali in altrettanti tipi di gara.
Seguivamo la sua impresa, affrontata a Le Mans a bordo di un’auto ibrida sport prototipo, veicolo della Toyota, e alla Indy500 sulla vettura monoposto McLaren, mezzo che esteticamente sembra da Formula Uno. È stata un’avventura fantastica perché abbiamo fatto tappe in posti differenti».
Un’opportunità che i fratelli Stifani si erano guadagnati collaborando al documentario “All or nothing: Manchester City”, su Guardiola, lavoro che ha ricevuto la nomination per gli Sports Emmy awards: “Mediapro”, che l’aveva prodotto, li ha chiamati nuovamente.
«È stato qualcosa di molto veloce per l’organizzazione – ricorda Gabriele – infatti dal giorno che abbiamo detto di sì alla partenza son passati quattro giorni. Al primo eravamo al circuito del Gran premio del Bahrain, quindi il documentario è nato in fretta, non come per quello sul Manchester City. E comunque la particolarità per noi è stata il fatto che questo tipo di documentario era un fatto più intimo rispetto a quello su Guardiola, qui non eravamo con un gruppo di persone».
Le novità. «È stato interessante – racconta ancora Luca – innanzitutto perché non siamo degli appassionati di macchine da corsa e ci dovevamo inserire nell’ottica di questo sport, quindi dovevamo capire cosa filmare, con chi parlare, quali sono le fasi più importanti di questo sport o quelle che non vengono mai viste in televisione. È stato un documentario alla scoperta sia di questo sport, sia del personaggio di Alonso. È stata una prova per noi di riuscire a stabilire come filmakers un contatto sia professionale ma ancora una volta di fiducia con il personaggio che stavamo seguendo. Con lui eravamo veramente dappertutto, sia durante le gare e gli allenamenti che nella sua vita privata, quindi mentre lui praticava i suoi hobby e quand’era a casa».
Mostrate le fasi delle corse automobilistiche che la gente non riesce a conoscere attraverso il televisore.
Gabriele: «Non voglio svelare molto del documentario, però dico che per noi guardare il motosport in televisione era l’auto che gira, davamo per scontato il motore, il design, invece dietro ad Alonso c’è una squadra. E si parla di categoria, non di Formula uno, ma di macchine da rally, di prototipi di Le Mans della Toyota oppure della macchina della McLaren che ha gareggiato all’Indianapolis. Ogni pilota è sempre collegato con lo staff, attraverso il computer e le radio, con i tecnici che monitorano tutto quel che succede nell’auto, dalla necessità di rifornimento di benzina all’usura delle ruote, e avvisano il pilota riguardo a chi sta arrivando da dietro e da dove. Questo perché il pilota è concentrato solo a guidare. È come se non dovesse mai tirare il freno, come se non dovesse mai prestare attenzione a chi sta passando, perché loro comunque vanno velocissimi e quindi hanno bisogno di uno staff tecnico che quindi è abbastanza numeroso, tale che non avrei mai pensato esistesse per uno sport del genere».
Luca svela qualcos’altro che sfugge ai telespettatori: «Alonso ha provato la famosissima 500 Miglia di Indianapolis. Le case automobilistiche di Formula Uno non vogliono affrontare queste gare perché sono molto diverse da quelle dei loro soliti circuiti, questo per non rovinarsi la reputazione. Invece lui era lì, sulla McLaren: questi girano finché non percorrono cinquecento miglia, stanno sempre col piede schiacciato sull’acceleratore, vanno a circa trecentocinquanta chilometri orari e in curva un binocolo guarda la macchina collegato col pilota via radio e dà i consigli anche sui minuti di distanza da quello davanti. C’è una costante comunicazione che non abbiamo mai sentito guardando questo sport per televisione. E a livello di preparazione della gara ci sono tanta ingegneria, tanta meccanica. Abbiamo visto meccanici che pesano la macchina costantemente perché questa deve rientrare in certi parametri, fanno dei test, fermano la macchina, praticano mille azioni sull’auto, continui aggiustamenti col computer. E c’è tanta affinità col pilota, perché è lui che decide la trazione, la regolazione della frizione: gli ingegneri devono avere un rapporto stretto con chi guida, quasi come se questo fosse il capo dell’officina».
Non solo. «Questi piloti – interviene Gabriele- sono controllati anche fisicamente, come i giocatori di calcio. Perché, ci ha riferito Alonso, andando sempre trecentocinquanta chilometri orari, senza staccare il piede dall’acceleratore, si possono perdere i sensi, si verifica un abbiocco, quindi si deve essere preparati fisicamente. Svolgono degli allenamenti con dei simulatori guardando uno schermo gigantesco, questo anche per conoscere la pista a memoria. Prima della gara, pilota e staff ispezionano la pista. Si parlano. La pista delle 24 Ore di Le Mans e il circuito Spa-Francorchamps constano di parti di strade pubbliche, loro fanno queste passeggiate per sapere come comportarsi su curve e rettilinei, noi li seguivamo in tali camminate: abbiamo corso per sette chilometri a piedi con una grossa telecamera per effettuare una ripresa magari su una curva ripida. È stata una esperienza più dura rispetto a quella del Manchester City, perché lì c’erano posti in cui stare, invece qui su ogni pista eravamo un po’ allo sbaraglio, c’erano i media di tutto il mondo, non c’erano molte persone a spiegarci dove andare, i briefing dello staff prima delle gare erano molto veloci, però questo lavoro è stato più emozionante rispetto a quello sulla squadra di calcio e anche più soddisfacente perché dovevamo cavarcela in ogni situazione. E non era semplice filmare una macchina che passa a tutta velocità».
Il rammarico di Alonso. «È stato molto difficile all’inizio – ricorda Luca – avere il materiale giusto per iniziare il documentario, però grazie alla sua affabilità è diventato semplice. Poi alla fine abbiamo fatto un sacco di riprese interessanti, anche relative a momenti molto drammatici, in cui le telecamere non sono ben accette, come quando a Indianapolis non si è qualificato e gli mancava questa gara per vincere la sua sfida personale, la “triple crown”. Noi eravamo i primi a cogliere le sue emozioni subito dopo la gara, a volte eravamo lì prima dei giornalisti».
Dunque, chi è Fernando Alonso? «Lui è famoso nella Formula Uno perché ha vinto il campionato mondiale due volte ed è stato il pilota più giovane vincerlo, ma lui pensa solo a vincere – rivela Gabriele – . E abbiamo seguito la sua sfida personale di vincere ancora. È un personaggio che non si è mai aperto al pubblico, ma ha voluto realizzare un documentario a trecentosessanta gradi. Infatti abbiamo conosciuto anche i suoi genitori, i suoi amici, la sua ragazza, lui insomma ha aperto le sue porte». E Luca approfondisce:«È un ragazzo tranquillo, viene da una famiglia normalissima, mentre molti piloti di Formula Uno vengono da famiglie ricche. Nonostante tutto il suo successo ha i piedi per terra ed è molto generoso. Infatti ha anche una scuderia di go kart, al museo-circuito “Fernando Alonso”, vicino Oviedo, per i giovani; secondo lui non c’è niente di più difficile che guidare il kart. E infatti lui viene da lì, all’età di tre anni già guidava, perché il padre gli aveva costruito un go kart. È uno che non ha peli sulla lingua, per cui a volte lo ritengono un tipo scontroso, ma il fatto è che dice le cose come stanno. Se non gli piace come un meccanico ha preparato la macchina, lui lo dice in faccia. Durante le interviste parla senza nascondere niente. Però rispetta la gente, sa cosa significa lavorare».
Un tipo immerso nello sport.
«Alonso è indubbiamente un mito – racconta Gabriele – magari si creano dei preconcetti sbagliati su di lui, ma seguire lo svolgimento di una sua giornata fa capire che si è a contatto con una persona normale. Se devo fare un paragone con Guardiola quello che colpisce di questi personaggi pubblici è che sono umani, ma che del loro sport sanno tutto, parlano quasi esclusivamente di quello. Pep parlava di calcio, invece Alonso è sempre con la testa tra le macchine: quando può sta sempre su due o quattro ruote, è sempre in giro a guidare».
Tra i due quarantenni salentini e il campione di Formula Uno è scoccata subito la simpatia:
«Il rapporto è stato abbastanza amichevole – narra Gabriele- All’inizio provavamo un po’ di soggezione, perché arrivare con una telecamera crea sempre un po’ di barriera. Però già dal secondo giorno Alonso era molto amichevole e collaborativo. Se Luca doveva mettergli il microfono sulla tuta o sulla camicia, lui si fermava volentieri. A volte ci faceva segno di seguirlo in un angolo nascosto perché gli potessimo applicare il microfono, in luoghi dove le telecamere non potevano entrare».
Luca: «Alla fine il rapporto è cresciuto, ci chiamava per nome, ci ha regalato un paio di cappelli del suo brand di abbigliamento e occhiali, “Kimoa”, abbiamo giocato a calcio insieme, siamo andati con lui in bicicletta, una cosa che lui ama molto fare. Alonso va in montagna, siamo andati a trovarlo mentre gioca a paddle con gli amici, a volte diventava anche divertente seguirlo, come nella Le Mans, una gara nei cui luoghi entravamo grazie a lui, magari ci faceva un occhiolino per farci passare o ha effettuato lui le riprese per noi con un drone».
Gabriele: «A volte al mattino andavamo a prenderlo da casa, spesso in hotel. La cosa più brutta era seguirlo in in camioncino, perché lui corre sempre, ha la velocità nel sangue. A volte era seduto accanto a me e gli davamo dei passaggi. Pochissime volte abbiamo mangiato insieme, eravamo suoi ospiti, ma pensando più alle riprese. Lui poi voleva coinvolgerci nei videogiochi ma non potevamo accontentarlo. Con noi parlava sempre l’italiano. La sua ragazza è italiana. Ma il cibo era spagnolo. La paella».
Memoria del Salento: «Quando gli abbiamo detto che veniamo dalla provincia di Lecce – ricorda Luca – ci ha raccontato che uno dei suoi ricordi più belli è una sua vittoria in go kart, al circuito di Ugento».
Cosa ha lasciato questa esperienza ai gemelli Stifani?
Luca: «Abbiamo avuto dei ruoli primari. A livello personale è stato soddisfacente perché i nostri erano ruoli di primo piano, mentre per il documentario sul Manchetser City eravamo in un gruppo. Il bello è stato il fatto di arrivare in un ambiente sconosciuto, anche se sulla sottile linea tra essere stressati e la pazienza di avere risultati, perché questa sarà una delle serie più gettonate di Amazon. Era molto importante riuscire a far bene con questi ruoli, molto ambiti nel mondo del cinema, e che ci infondono fiducia in più nel continuare su questa strada».