IL CALCIO RICOMINCIA COME PRIMA, PEGGIO DI PRIMA
MA A SANTA ROSA NON SI GIOCA PIU’ A PALLONE
di Giuseppe Puppo______
I profumi sono rimasti in questo quartiere di periferia, ma vanno e vengono, e sono cambiati: non sento più, alla domenica, quello del sugo con la carne, l’unico giorno in cui allora le mamme potevano per mettersi quel lusso, un po’ di spezzatino.
I fiori sono di meno, pure gli uccelli, solo di rado si sente il loro canto libero, gli alberi ridotti, le api pressoché scomparse.
L’aria non è più secca, se non raramente, il vento spazza però come allora pensieri, quando butta la tramontana, o li aggrega, quando è scirocco, perché a Lecce città spirano solo due venti, come qui sanno e dicono tutti quanti, mistero della meteorologia salentina.
Questo quartiere sta morendo, anzi, è già morto, perché muore lentamente, chi si trascina nell’apatia, nell’indifferenza del tempo e degli uomini, e nel progressivo degrado, di cui tutti parlano spesso, ma per cui nessuno fa mai niente, nonostante le promesse elettorali.
Il ‘murale’ di Carmelo Bene – una botta di vita – deturpato, la fontana, spenta, ricettacolo di sporcizia, le scritte sulle palazzine senza più quel decoro, finanche quel pregio, che avevano quando furono costruite, gli arredi urbani deteriorati, il silenzio, l’abbandono che si respira appena scende il buio, quando sembra che ci sia il coprifuoco, d’estate come d’inverno, e sotto i portici di piazza Indipendenza scende il gelo, a tutti i mesi, con i giardinetti vuoti, senza più bambini, com’era prima.
La memoria storica condivisa ha un’amnesia, ma l’immaginario individuale una sinapsi.
Io mi ricordo questi slarghi, questi marciapiedi, questi pini, queste panchine, che facevano da porte; ho memoria di quella felicità che non c’è più.
Noi, allora ragazzi di vita, come quelli di Pier Paolo Pasolini, contemporanei, ora stiamo diventando vecchi, forse lo siamo già, ma non per un fattore anagrafico, no: perché adesso stiamo in una periferia di una città globalizzata, problematica, anonima, ipocrita, indifferente, ed emarginata.
Qui, a Santa Rosa, ma credo come da nessuna altra parte, non ci sono più i bambini che giocano a pallone.
Ce n’erano tanti, pochi decenni fa.
Ho fatto in tempo, nella mia infanzia povera ma bella, a sentire le memorie da Stalingrado, il quartiere limitrofo, che si chiamava così perché assomigliava alla metropoli sovietica distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, dal vicino, mitico, arso e sabbioso ‘Carlo Pranzo’ che non è che fosse messo tanto meglio, di Franco Causio; di Mimino Renna, “il Garrincha dei poveri”, prima da calciatore, poi da allenatore; di Materazzi, Giuseppe, “…Materazzi, Virgolini, Di Somma…”; sentivo di Sergio Brio e come tutti ero contento di lui; in seguito, ho sentito di Antonio Conte, e me ne sono rattristato.
Ero portiere. Più grande di me di qualche anno, in quelle interminabili partite, vere e proprie, o in quelle specie di allenamenti inventati in maniera agonistica (“ci segna trase”), c’era a volte, fra gli altri, Franco Miloro, che giocava già nel Lecce, alto e smilzo, dinoccolato, molleggiato, dal fisico perfetto, per un estremo difensore; e ce n’era un altro, di portiere, che non mi ricordo come si chiamasse veramente, perché tutti lo chiamavano Giobbo.
Studiavamo quasi tutti; molti lavoravano già, sia pur in maniera saltuaria, ma pesante, e nessuno ne ha mai fatto in seguito un motivo di vanagloria.
Eppure giocavamo a pallone.
Oggi non ci sono più i ragazzi che giocano a pallone, a Santa Rosa, come dappertutto.
Oggi il calcio è un’ altra cosa: è industria, impresa, spettacolo televisivo.
Non dà più felicità.
Credo che da questo il mondo del calcio avesse dovuto ripartire, dopo l’avvenimento epocale della pandemia: dai valori morali, da trasmettere alla gente; dai sentimenti, da far vibrare nel popolo.
Vedo, sento, leggo che invece è ripartito come se niente fosse, in nome dei burocrati delle multinazionali, dei parrucconi europei dei dirigenti, che pure hanno responsabilità enormi sulla diffusione del contagio, del dio denaro, del profitto, degli ingaggi assurdi, dei procuratori di ogni specie e degli intrallazzatori di ogni risma.
Un carrozzone che va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti e i suoi re, ma che non farà ancora molta strada, con gli atleti da salotto, gli appassionati da tastiera e i commentatori da social.
Un mondo, quello del calcio, che non ha capito nulla, di quello che è successo, e che ha giocato nonostante, soprattutto continuerà a giocare, senza pubblico negli stadi, invece di fermarsi, seriamente, ripensarsi, rifondarsi e reinventarsi.
Altro che ‘andrà tutto bene’…Se faremo come stanno facendo quelli che il calcio, in altri ambiti e in altri contesti, erroneamente considerati più importanti, andrà tutto male, andrà tutto peggio
Senza tifosi sulle gradinate, il calcio è già morto. Ha cominciato a morire, da quando non ci sono più i bambini che giocano a pallone nei quartieri di periferia.
Come a Santa Rosa.
Io so cosa è la felicità.
La verità non sta in un sogno, ma in molti sogni.
Tutti quelli che abbiamo perduto.
Siamo senza verità, senza sogni.
Diceva tanti anni fa Zdenek Zeman: “La grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza, in ogni angolo del mondo, c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi“.
Diceva, oggi non può più dirlo.
A Santa Rosa non ci sono più palloni, non ci sono più bambini.
Category: Costume e società, Cultura
Bel pezzo, complimenti.
Mi piange il cuore ogni volta che passo vicino alla bocciofila.
Fino a un paio di anni fa quel campetto di calcio sgarrupato, pieno di buche, con le porte rotte e i muretti caduti, era teatro ogni pomeriggio di sfide epiche tra i bambini del quartiere. C’era perfino chi ci giocava a tennis di primo mattino.
Mi ci immaginavo correre mio figlio quando sarebbe cresciuto: “E dal ‘Barbas e Pasculli’ di Santa Rosa è tutto”, mi ripetevo scherzando.
Poi un giorno degli operai, il manto di erbetta sintetica tutto nuovo, i pali delle porte rimesse in piedi e delle inferriate. Alte, altissime, impossibili da scavalcare. “Che bello, finalmente lo sistemano”, pensai ingenuamente. E invece no, un cancello chiuso col lucchetto e da lì la morte. La morte di un luogo di aggregazione aperto a tutti che diventa esclusivo per pochi, anzi, per nessuno. Perché non ci ho mai visto nessuno mettere piede, far rotolare un pallone, anche solo semplicemente entrarci. Un bellissimo campetto nuovo chiuso al pubblico: che senso ha? Chi lo ha deciso? Non lo so. Quello che so per certo è che se chiedete a un bambino di Santa Rosa se preferiva il precedente sgarrupato ma libero o questo luccicante ma imprigionato da un lucchetto la sua risposta sarà scontata.
E state pur certi che, quando tutto questo periodaccio storico sarà passato, i palloni torneranno a rotolare anche nelle piazzette di Santa Rosa: con due zaini a fare da pali, le giacche a delimitare le bandierine del corner e qualsiasi cosa si possa appallottolare da prendere a calci ed esultare con l’indice puntato al cielo. Magari proprio accanto a quel campetto triste, chiuso e sfavillante tenuto lì come i salotti delle case di 30-40 anni fa: perfetti, sia mai viene qualcuno, ma guai ad entrarci. Nel suo piccolo simbolo di un calcio sempre più esclusivo e non inclusivo, orientato al business e non al piacere dello sport, proprio come raccontato nell’articolo.
Semplicemente un pezzo degno di un grande professionista con il cuore nella sua città e nel quartiere dove ha vissuto la sua adolescenza. Grazie Giuseppe Puppo ci hai fatto sognare e ci hai fatto ritornare indietro nel tempo. Molto significativo quell’ odore di sugo di carne che aleggiava in tutto il quartiere, di domenica, preparato dalle nostre mamme. Molto emozionante…..
Bellissima la foto di Pasolini. Amava il calcio e studiava le trasformazioni dalla civiltà contadina a quella industriale e i fenomeni di urbanizzazione.
Io sono nato in un quartiere dalla parte opposta della città, Leuca – S.Guido. Uguali erano i vissuti e i sapori.
Guardiamo le cose con nostalgia principalmente perché eravamo giovani e avevamo delle speranze che non sempre e non tutte si sono realizzate.
…E’ cambiata la vita rispetto a 40 anni fa.
In questi ultimi anni d’estate nel periodo di ferie rientrando di notte a SantaRosa ho provato una delusione dietro l’altra notando i portici vuoti ed il coprifuoco già dalle 21.00. I ricordi invece mi trasportano quando si tornava dal mare anche a mezzanotte e le panchine erano gremite di ragazzi e ragazze.
Come dimenticare le infinite partite fino all’imbrunire nelle giornate di primavera. A Santa Rosa ho giocato ovunque: sotto casa in via adige, in parrocchia, sullo spiazzo della vecchia posta, di fronte alla rivendita auto Acquaviva, al campo militare sulla via per frigole, al campetto del centro sociale. In ogni campo improvvisato erano sfide con altri gruppi di vie diverse. Il nostro il più sgangherato: come porta il retrobottega della farmacia di allora…ancora mi ricordo il farmacista che usciva disperato per le pallonate.