CONTRO-SANREMO 68: DECOLLO CON LENTA PESANTEZZA, OMBRE DI PLAGIO SUI FAVORITI META-MORO
di Annibale Gagliani______
Buon festival, caro lettore.
Una finta invasione di campo del solito protestante? Non importa. Una coreografia con scale mobile, pagata coi soldi del Mondiale in Russia. Tanta melina all’aurora: un Fiorello non brillante come sempre e il direttore artistico, Claudio Baglioni, ad asserire che in questa edizione “la canzone popolare italiana sarà assoluta protagonista”.
E poi la Hunziker – già vaccinata con il festival baudiano del 2007 – che porta il linguaggio berlusconiano sul palco e un Pier Francesco Favino che si barcamena tra gag e canzonette canticchiate.
Incredibilmente, verso le due di notte, si stagliano le ombre del plagio su una canzone. Il critico musicale del Corriere della sera, Andrea Lanfranchi, fa notare come una canzone di Ambra Calvani e Gabriele De Pascali, Silenzio, sia molto simile nel ritornello a Non mi avete fatto niente di Ermal Meta e Fabrizio Moro. Chissà, si addensano le nubi della squalifica sui i cantanti, ma è tutto da confermare e da vedere.
Torniamo alla macchina organizzativa. Una cosa è subito evidente: mancano i tempi televisivi e il dinamismo funzionale. Carlo Conti ha scavato un solco difficilissimo da superare negli anni a venire, sia per la partecipazione di una professionista della comunicazione, Maria De Filippi, e sia per la competenza radiofonica nella scelta dei pezzi.
Claudio Baglioni è un grande della musica italiana, ma non un conduttore. Favino è un grande del cinema italiano, ma non un conduttore. Questo è un limite evidente dello show. Ma arriva Fiorello in soccorso, anche se l’impossibilità di fare satira politica lo rende inoffensivo. Ma arrivano Gianni Morandi e Tommaso Paradiso a dare una mano: il primo è diventato il re del trash italiano; il secondo, da indie a iper-poppettaro, tramuta in oro tutto quello che tocca. Magari passasse da qualche banca nazionale.
Ciononostante è la musica a essere al centro del villaggio e il direttore dei lavori ci tiene a rimarcarlo. La giuria demoscopica ha espresso il proprio voto, che varrà per il 30% nell’economia finale. Ha diviso i 20 partecipanti i tre zone: inferno, purgatorio e paradiso.
Andiamo all’inferno!
I Decibel (Enrico Ruggeri and co), Lettera dal duca. Nella canzone pronunciano questa frase: “fuori dal tempo”. Lo sono davvero, grazie al loro glam-rock. Il ritmo godibile omaggia il duca della musica internazionale: David Bowie. Misteriosi.
Avitabile e Servillo, Il coraggio di ogni giorno. Pezzo che affresca il cuore di Scampia. Coraggioso e lineare, ma parecchio melenso. Incompresi.
Red Canzian con Ognuno ha il suo racconto, e Riccardo Fogli e Francesco Facchinetti con Il segreto del tempo. Accomuno il giudizio: residui di Pooh che propongono il revisionismo sulle rispettive vite. Canzoni tristi e anacronistiche: la gente si chiederà perché essi non hanno concorso insieme, giusto per lenire le pene degli ascoltatori. Totem decaduti.
Le Vibrazioni, Così sbagliato. I Led Zeppelin della Brianza entrano in punta di piedi con il loro rock romantico. Peccato che dopo il primo minuto proposto l’atmosfera sia diventata soporifera. Pensavo fosse rock invece era un calesse, citando Troisi. Immensamente Claudio.
Renzo Rubino, Custodire. Il piccolo cantautore di Martina Franca poteva dare di più. Porta al festival una versione dei giorni nostri di A mano a mano di Cocciante, e complessivamente dimostra di non aver trovato il coniglio nel cilindro. Vagabondo.
Diodato e Roy Paci, Adesso. Grosso errore della giuria nei confronti dell’interprete tarantino e del trombettista siculo. Arrangiamento sfizioso e testo impegnato che ammonisce i giovani dal vivere la realtà virtuale piuttosto di quella reale (ben più soddisfacente ed emozionale). Risorgeranno.
Andiamo nel purgatorio, dove albergano le anime canore senza infamia e senza lode.
Luca Barabarossa, Passame er sale. Canzone buona a pranzo e talvolta anche a cena: carina tamburriata delicata: almeno è stato originale a utilizzare l’etimo delle borgate.
Mario Biondi, Rivederti. Sa di avere uno strumento vocale morbidamente ruvido, accattivante. Il pezzo, un po’ jazz, un po’ blues, non è degno di nota. Narciso.
The Kolors, Frida (mai, mai, mai). Interessante il connubio tra il loro electro-funk e l’orgasmica orchestra di Sanremo. I limiti son sempre gli stessi: canzoni da jigle giovanile e difficoltà di presentare un brano credibile in italiano. Anglofoni.
Elio e le storie tese, Arrivedorci. Annunciano quest’estate in un concerto a Trepuzzi che quello sarebbe stato il loro ultimo appuntamento. Fanno la furbata di continuare e sciogliersi a Sanremo. In tutti i sensi però: il pezzo, intitolato come il saluto di Stanlio e Olio, è una noia invereconda. Non li salvano nemmeno gli abiti da indiani esposti. Tardivi.
Giovanni Caccamo, Eterno. Un atto di fede nei confronti dell’amore, con le intenzioni di Ritornerò da te, ma con un incedere piuttosto banale. Barba indecente.
Vanoni-Bungaro-Pacifico, Imparare ad amarsi. L’Ornella nazionale torna dall’ibernazione. Poco da dire sul pezzo, un’indefessa tiritera sui sentimenti, istruzioni per l’uso dell’amore. La diva dice: “Ci sono voluti tanti anni per diventare giovani”. Come darle torto, in questo Paese…
Sostiamo nel paradiso, cioè tra i favoritissimi della 68° edizione.
Noemi, Non smettere mai di cercarmi. La solita Noemi di Sanremo: voce di classe, appeal naturale, manca sempre l’acuto per raggiungere la vittoria. Il pezzo è ordinaria amministrazione, difficilmente portà portarla a soffiare scettro e corona a tutti. Sciupona.
Annalisa, Il mondo prima di te. Battezza il festival, peccato sia la solita Annalisa di Sanremo. O forse no. La scollatura era da mille e una notte. La voce intensa, la belleza impeccabile, ma la chanson troppo prevedibile. Lamenta la perdida di un amore, però una così non avrà mai di questi problemi.
Nina Zilli, Senza appartenere. Un encomio alla donna, che non appartiene a nessuno, se non a se stessa. Anima blues e occhi famelici. Lei è una veterana del Festival e la sua personalità è una garanzia. Vede il podio, ma con fatica. Femminista.
Max Gazzè, La leggenda di Cristalda e Pizzamunno. Cantastorie per queste notti brillantate. Racconta con garbo la fiaba di un pescatore e una sirena. Una roba molto originale, certo non sfavillante, però godibile. Sornione.
Ron, Almeno pensami. Canta un inedito di Lucio Dalla. Dalle sue emozioni traspare tutta la dolcezza del Lucio innamorato, che infonde puri sentimenti al suo desiderio amoroso. Il pubblico si commuove. Leggero.
Arriviamo ai favoritissimissimi.
Ermal Meta e Fabrizio Moro, Non mi avete fatto niente. Accusata nel Dopofestival di plagio dal critico Andrea Lanfranchi. Canzone di forte impatto sociale, che racconta con rispettosa armonia la rivalsa delle vittime degli attentati dell’ISIS. Il sodalizio poteva essere più incisivo e intenso, ma ci sarà tempo per farlo (?). Musicalmente pop d’autore.
Lo Stato Sociale, Una vita in vacanza. La sorpresa brulicante della serata. I ragazzacci bolognesi propongono un brano pregno di stereotipi e problemi italiani. In questo Paese si ammazza il lavoro, non dimenticatelo. Sono abbastanza cazzoni, svolazzando su una base poppettara (che si discosta parzialmente dalla loro sfera indie) mescolata con l’orchestrona sanremese. Nel momento clou dell’esibizione piazzano la “vecchia signora” (non la Juventus): una super donna anziana che balla un passo a due con estrema elasticità. Sono stati i più applauditi nel Teatro Ariston. Giullari.
Come accannato, se l’osservazione del critico del Corsera avrà un riscontro veritiero, potrebbero aprirsi scenari clamorosi. Con Meta-Moro fuori dai giochi il Festival diventerebbe indecifrabile e fuori dagli schemi, al centro della sue incertezza espresse.
Intanto la prima serata delude abbastanza, domani si vedranno i dati dello share (vero parametro di giudizio scorticante) e si attenderà un pronto riscatto.
Buon Sanremo a tutti.
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