L’AMORE AI TEMPI DELL’ANORESSIA
di Eliana Forcignanò______
Come ogni anno giungono i beneamati saldi di fine stagione: quei giorni concitati in cui quasi ci si sente obbligati ad acquistare qualcosa, fosse anche un insignificante accessorio, purché vi sia stata applicata una riduzione del prezzo. Non deve neppure trattarsi di una congrua riduzione. È sufficiente l’idea di aver risparmiato qualche euro ad accendere ulteriori fantasie di shopping compulsivo, mentre nella testa una vocina sussurra il magico imperativo: “compra!”.
Senza indugiare troppo, negozi e boutique sono presi d’assalto: ne hanno per tutti i gusti e per tutte le taglie. Che, a ben riflettere, è questo il problema: le taglie.
Da sempre bisogna giocare d’anticipo per trovar la propria, tuttavia la tempistica strategica ultimamente sembra non bastare, soprattutto in materia di abbigliamento femminile, dinanzi a un’altra questione ben più incandescente: le taglie, quelle vere, non ci sono più. Rimangono i cartellini, ma ogni taglia sembra corrispondere alla precedente: in breve, M corrisponde a S, S a XS e così di seguito.
Ne risulta una conseguenza facilmente immaginabile: scompaiono le taglie large e chi è in sovrappeso è costretto a ghettizzarsi in negozi appositamente predisposti, quasi si trattasse di una malattia che richiede la quarantena.
Certo, si potrebbe obiettare a queste argomentazioni che il fenomeno della lotta all’oversize è in atto da lungo tempo, soprattutto nell’ambito dell’abbigliamento prodotto in serie e massificato. Se l’alta moda rifiuta di ingaggiare top model scheletriche, se lo stile curvy sboccia come fiore dopo una lunghissima battaglia tesa all’annullamento della discriminazione, il cambiamento del modo di pensare non sembra interessare i ceti medi e medio-alti che si consumano di fitness, si macerano nel vegan e vestono XXS guardando con malcelato disprezzo chi supera i quarantadue chili.
Sembra il caso di spendere qualche parola sull’influenza che questo atteggiamento ossessivo nei confronti della propria immagine corporea esercita nei più giovani, per i quali l’equazione “magro è bello” sposa ulteriori aberrazioni come il bullismo e l’ostracismo nei confronti di chi è visibilmente in sovrappeso.
Le statistiche aggiornate al 2016 sulla diffusione dei disturbi alimentari non sono confortanti: secondo l’ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione clinica), in Italia i giovani affetti da DCA sono circa 3 milioni, con un numero di decessi per anoressia nervosa pari al 5,86% e il 6,2%.
Le principali vittime di questi disturbi sono le donne (circa il 95,9%). Tali numeri denunciano, accanto alla presenza di dinamiche intrapsichiche, intersoggettive e familiari non sane, la compiacenza della società nei confronti di un meccanismo stritolante e subdolo che legge l’adolescente secondo parametri prestazionali e standard d’immagine: “pesare di meno per dare di più”, potrebbe apparire uno slogan adatto a questa temperie, poiché l’adolescente cicciottella o cicciottello è collocato nei ranghi degli inadeguati o, per ricorrere a un gergo familiare all’età di cui trattiamo, dei “perdenti”.
Che cosa si perda è domanda che rimane aperta, considerando il fatto che, probabilmente, il consenso dei coetanei non c’è mai stato e, pertanto, non si può perdere ciò che non si ha.
Di là dalle sottigliezze filosofiche, l’adolescente in sovrappeso è relegato, se ha fortuna, al rango di “amico degli amici”: scarsa considerazione da parte dei coetanei, scarse relazioni amicali e sentimentali. Per una manciata di chili in più, destinati, forse, ad aumentare con l’accrescersi della solitudine in un circolo vizioso che si autoalimenta e che, non di rado, solo gli addetti ai lavori sono in grado d’interrompere.
Ci si stupisce ancora, grottescamente, quando un tredicenne perviene allo studio di uno psicologo, come se si trattasse di una rarità: nessuna sorpresa non soltanto perché, tra i quattordici e i diciotto anni, sono sempre maggiori le spie del disagio, ma anche perché l’adolescenza è un microcosmo in cui si rispecchia il mondo intero.
Non solo è vero, come sostiene Freud in quell’aforisma che amiamo tanto citare, che “ogni adulto convive con il bambino che è stato”, bensì è anche vero che ogni bambino convive con gli adulti che ha intorno e a loro cerca di adeguarsi a ogni costo, pur se questo richiede l’adesione a quello che Bateson definirebbe un “doppio legame” in cui la madre invita il bambino a sciogliersi in un abbraccio, ma ha le braccia rigide come il ferro.
A ben riflettere, i saldi di fine stagione sono l’ennesimo pretesto per guardare con occhio critico a una società in cui l’imago, la proiezione, assume sempre più il posto della realtà e questa non è mai come vorremmo che fosse, così che, invece di tener conto delle circostanze di fatto, ci costruiamo un mondo psicotico e allucinato in cui soddisfare i nostri desideri senza interruzione.
Talvolta, la morale provvisoria del buon vecchio Cartesio, il quale prescriveva di provare a cambiare noi stessi piuttosto che cambiare il mondo, non è poi così spregevole, soprattutto se la s’interpreta nella direzione di un cambiamento del nostro atteggiamento mentale per poi tentare un cambiamento più ampio.
Un cambiamento, una rivoluzione, sarebbe più corretto dire. Come quella che accade quando ci si innamora: di chi o di che cosa dovremmo innamorarci? Di noi stessi? Sebbene l’ovvietà suggerisca questa risposta, di narcisismo e autoerotismo ne abbiamo sin troppi.
L’amore ai tempi dell’anoressia è un accadere, una sospensione del giudizio che apre alla comprensione dell’altro da sé il quale coincide, sovente, con l’altro di sé, con ciò che di noi non si sapeva né, forse, si voleva sapere.
Non permettiamo più che nulla accada: tutto soggiace al programma, al controllo ossessivo, alla prestazione efficiente, macchinosa e macchinale, ma l’accadere contempla anche il vuoto, la noia, la morte se parafrasiamo Jankélévitch, in breve, contempla il negativo che nel divenire eracliteo e junghiano è un complemento indispensabile del positivo.
In uno scritto del 1916, intitolato La funzione trascendente, Jung afferma che non sono le difficoltà a rendere intollerabile la vita all’uomo, ma il loro numero e non è infrequente che esso sia aumentato dalla nostra incapacità di affrontarle e interpretarle quale occasione di crescita. E, allora, torna la domanda: di chi o di che cosa dovremmo innamorarci?
Forse di un ideale che non sia quello dell’apparenza, forse di un uomo o di una donna in sovrappeso? Perché no? Ma il termine “dovremmo” configura un errore logico in questo nostro argomentare: di chi o di che cosa ci permetteremo, finalmente, d’innamorarci? Se è vero che ci si innamora sempre di una proiezione, questa non può durare in eterno, ma il ritiro della proiezione indica la sopraggiunta consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che vorremmo da noi stessi e dagli altri. Anche di ciò che potremmo non ottenere, ma val la pena di rischiare.
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